«Sulla soglia della coscienza. La libertà del cristiano secondo Paolo» di Adrien Candiard

Parole di cui abbiamo bisogno

Adrien Candiard
07 agosto 2020

In quanti modi si può tradire il Vangelo? Nella galleria delle infinite possibilità, aggiunge un tassello importante il breve, chiaro e densissimo libro scritto da un giovane cristiano francese che vive al Cairo. Un tassello importante non tanto per il tradimento che fotografa — l’approccio legalista alla Parola di Gesù — ma per il modo in cui lo fa.

Classe 1982, dopo essersi dedicato alla politica, nel 2006 Adrien Candiard è entrato nell’Ordine domenicano. Membro dell’Institut dominicain d’études orientales ed esperto di islam, è autore dell’opera teatrale Le cinquième évangile (insignita del Prix Jacques Hamel, e di cui Silvia Guidi ha parlato su queste pagine) e di diversi saggi di spiritualità. Tra loro Sulla soglia della coscienza, vincitore del Prix de la liberté intérieure, recentemente edito in Italia da Emi (Verona, 2020, pagine 128, euro 13; traduzione di Pier Maria Mazzola).

Muovendo dalla Lettera a Filemone, Candiard analizza la libertà del cristiano secondo Paolo (come specifica il sottotitolo), e lo fa con parole chiare e semplici, firmando un testo che accompagna il lettore — anche il non addetto ai lavori — al cuore del cristianesimo. In quello che il cristianesimo è e, soprattutto, non deve essere.

«Non ho niente contro i ragionieri, ma la grazia di Dio non rientra, per definizione, in un foglio Excel»: troppo spesso, invece, anche da chi è animato dalle migliori intenzioni, la fede cristiana viene concepita come un elenco di proibizioni oppure come una sorta di lista di precetti da seguire pedissequamente.

Se Paolo non è colui che risulta dai brevi, scarni e decontestualizzati frammenti che siamo soliti orecchiare a messa — sostiene Candiard —, così Gesù non ha parlato da contabile, ma si è fatto latore di un messaggio di grazia, coscienza e amore.

La parte più interessante del libro, però, sta nei passaggi in cui Candiard mette la Parola alla prova con la sua vita, con i suoi stessi errori, con gli incontri fatti nel corso del suo ministero. «Ci sono dei dopo-messa difficili per un predicatore — racconta ad esempio nel capitolo Non è giusto! —. Non tanto nei giorni in cui l’ispirazione gli ha difettato; i fedeli sono ordinariamente indulgenti in questo caso. Ma le domeniche in cui ha dovuto leggere, con qualche brivido, una di quelle pagine di vangelo che tanti cristiani trovano pressocché insopportabile sentire». Non quelle in cui si evoca l’inferno, ma piuttosto quelle che tanti credenti non riescono proprio a mandare giù: «Tutte le parabole in cui Gesù parla di un peccatore apparentemente preferito ai giusti, di un ragazzo che fa della propria vita quel che gli gira mentre il fratello maggiore rimasto docilmente a casa è quello che nella storia fa la parte del cattivo, di braccianti che cominciano la loro giornata di lavoro un’ora prima della fine ma trovano del tutto naturale essere pagati quanto gli altri».

Quelle di Candiard sono parole di cui avremmo tanto bisogno oggi, nelle prediche delle nostre messe. Se il giovane domenicano non è certo il primo a spiegare il significato di tante parabole scomode, di richieste eccessive fatte da Gesù, di concetti male interpretati come quelli di castità e di abuso di potere, ciò che lo caratterizza è la scelta delle parole. Il loro tono, la loro potenza concreta fondata su una chiarezza che è insieme semplice e profonda.

Leggendo le parole di Paolo e indagando il significato del cristianesimo alla luce della sua esperienza, Candiard passa attraverso le pagine di Paul Claudel, di Georges Bernanos, dei padri del deserto e di Dostoevskij. E della sua celebre Leggenda del Grande Inquisitore, emblema di una Chiesa che corre spesso il rischio di non ascoltare la voce di libertà su cui si fonda il Vangelo.

Parte da un’epistola un po’ spiazzante Adrien Candiard, perché la lettera a Filemone non è una disquisizione ideologica o politica a favore dell’abolizione della schiavitù, ma una “semplice” esortazione alla fraternità cristiana, un «invitare senza obbligare». Ma il punto veramente interessante è la domanda che Candiard ci pone. Perché il giovane domenicano affida al lettore la questione più delicata di tutte, specie per chi (e siamo in tanti) tiepidamente crede: «Che cosa facciamo, noi, del nostro tempo?».

di Silvia Gusmano