A cento anni dalla nascita di Ray Bradbury

Non solo fantascienza

Oskar Werner in una scena del film «Fahrenheit 451» diretto nel 1966 da François Truffaut e tratto dall’omonimo romanzo di Ray Bradbury
19 agosto 2020

Ray Bradbury è nato il 22 agosto di un secolo fa, in un anno bisestile, e in un mondo in fermento sul piano delle rivendicazioni civili: pochi giorni prima della sua nascita, negli Stati Uniti, viene emanato il XIX emendamento, che concede finalmente il diritto di voto alle donne.

Sul cielo d’America, però, si addensano anche le nubi di un disastro economico senza precedenti: nove anni dopo la nascita di Ray, una folla si riversa davanti alla Big Board nel buio martedì del Big Crash. Le Borse di New York, Chicago e San Francisco sono in fiamme, eppure lontane mille miglia dal piccolo mondo provinciale dei Bradbury, stretto fra le Montagne rocciose e i Grandi Laghi del Midwest, dove le cose si muovono più lentamente che altrove.

Tuttavia l’onda d’urto di ciò che è accaduto nel «grande mondo laggiù» (espressione spesso usata da Ray adulto) li raggiunge di gran carriera. Suo padre, operaio elettrico, perde subito il lavoro e da quel momento è tutto un affaccendarsi per portare il pane in tavola. Sino a quando, nel 1934, si decide ad andarsene con moglie e figlio in una delle città del «grande mondo», dove il ferro dell’industria e del progresso è ancora caldo, Los Angeles.

Come spesso accade agli scrittori, il cuore letterario di Ray rimarrà per sempre ben piantato nelle atmosfere rurali della provincia, ma è la città a dargli le gambe con cui correre verso la popolarità. A contatto con l’ambiente californiano, Bradbury scopre il mondo degli appassionati di fantascienza e stringe amicizia con Forrest J. Ackerman, Ray Harryhausen, Henry Kuttner ed Henry Hasse. Col penultimo Henry pubblicherà Pendulum, il suo primo racconto, nel 1941. All’ultimo Henry dovrà il finale del suo The Candle, pubblicato nel 1942 su «Weird Tales», di cui è entusiasta lettore sin da ragazzo.

Ray è uno scrittore di rivista, un narratore a puntate, e molti dei suoi racconti verranno a lungo dimenticati, per essere ristampati solo negli anni Ottanta, come accadrà ai suoi Omicidi d’annata, che presenteranno al mondo la vena mistery di un autore ormai messo in gabbia dal genere fantascientifico e dall’affetto nervoso di milioni di ammiratori in ogni canto del globo. Non senza ragione, occorre aggiungere.

A quel genere, Bradbury ha offerto, da autore e sceneggiatore, un vasto campionario di forme e tòpoi. Se dessimo retta al Fedro di Platone, dovremmo riconoscergli d’aver accresciuto non poco lo schedario delle idee che va sotto l’etichetta, un po’ stretta, della fantascienza. Se i giapponesi hanno potuto scrivere tante riduzioni sul filone dei «mostri preistorici in città» lo devono al suo The Fog Horn. L’immaginario del terraforming (l’ipotetico processo artificiale atto a modificare chimicamente un pianeta per renderlo simile alla Terra e adatto alla vita umana) deve anche a lui moltissimo. E se dessimo ancora retta a Platone, toccherebbe a Bradbury il brevetto della televisione a schermo, del walkman e dell’auricolare bluetooth. Con decenni d’anticipo, la sua idea, rispetto alla realtà pura e semplice della realizzazione tecnica.

Quando lo Spirit tocca davvero il suolo di Marte e comincia a inviare immagini del pianeta rosso, la Nasa decide di invitare in diretta chi quell’avventura l’aveva immaginata nel 1950, l’anziano scrittore dell’Illinois, con gli occhiali e la pappagorgia, seduto al lume di una tiffany, in uno studiolo pieno di dinosauri giocattolo e vecchie civette del cinematografo.

Eppure, è così riduttivo rinchiudere Bradbury nel genere della narrativa avveniristica. Vi è ben poco in lui che possa ricordare il classico autore di storie future e di miti della frontiera. Si disinteressa alla scienza, i suoi personaggi sono più fantasiosi che logici, bada assai poco ai dettagli dei mezzi di trasporto o degli strumenti futuristici. E non occorre andare troppo nello specifico per rendersene conto. Nelle sue storie, il futuro non è raccolto della fantasia del precursore e dell’esploratore, teso a vagheggiare mondi vergini e portentosi ritrovati. Non v’è in lui nessun interesse ad arrivare prima o a piantare bandiere colonialiste sul domani, benché ciò sia accaduto, suo malgrado. Il futuro di Bradbury nasconde un contenuto simbolico che interessa soprattutto l’oggi, senza tempo e costante dell’Uomo, e che fa pensare alle meravigliose storie di Hawthorne, all’umanità derelitta di John Steinbeck.

Abbiamo il coraggio di definire la sua opera più celebre, Fahrenheit 451, una distopia, vale a dire una rappresentazione negativa di una realtà immaginaria del futuro. Come se il nostro vero mondo non avesse mai conosciuto la tangibile immagine di libri bruciati nelle Bücherverbrennungen naziste e non solo naziste, o accantonati negli indici dei libri proibiti. Come se la biblioclastia fosse estranea alla storia delle nostre istituzioni politiche e, ahimé, anche della nostra Chiesa. Abbiamo il coraggio di definire «Antologia di fantascienza» le sue Cronache marziane, come se l’aspetto più importante di quei ventotto racconti fosse la futura esplorazione del pianeta Marte. E in questa banalizzazione ricordiamo gli sciocchi che, in un antico proverbio orientale, si fermano a guardare il dito, quando il saggio indica la Luna.

Basta leggere il dialogo tra i due militari scesi su un pianeta Marte che somiglia abbastanza all’Illinois dell’autore, per rendersi conto che il sugo della storia gorgoglia nel pentolone del nostro mondo e non in quello del cielo. «Non ci pensate», dice uno all’altro, «Lasciate piuttosto che vi faccia una domanda. Che cosa fareste se foste marziani e un popolo straniero venisse nella vostra terra e cominciasse a straziarla?».

In Cronache marziane si respira la nostalgia nei confronti di una vita più vicina alla natura, si riflette la storia autentica dell’imperialismo degli europei, che stanno ai terresti, esattamente come i nativi americani stanno ai marziani. Marte è metafora dell’America e l’America è metafora di una lunga storia di terre rapinate e depredate e dei tanti, tantissimi popoli soggiogati e sfrattati dai bravacci delle frontiere, in ogni angolo del nostro «mondo quaggiù» (e non solo dagli europei).

Se andiamo a curiosare in The Stories of Ray Bradbury, l’antologia più completa dei suoi racconti, lo spessore letterario dell’autore dell’Illinois si fa ancora più chiaro ed evidente. Il suo umanesimo sorprendente, spiazzante, finanche commovente. E non c’è buiofilo, futurologo o accigliato critico che possa evitare d’ammettere che Ray è bravo, proprio bravo a parlare degli uomini e non solo di marziani. E che pochi hanno saputo raccontare il sentimento dell’empatia come ha fatto lui ne La ragazza che viaggiava. Pochi, pochissimi saprebbero oggi descrivere la sopraffazione dei rumori della tecnica sull’uomo come ha fatto lui ne L’assassino. E pochi, sempre pochi, hanno saputo descrivere la fede come ha fatto lui ne La centrale, un omaggio al mestiere del papà e alle valli sabbiose e asciutte della sua terra.

di Roberto Rosano