Le speranze della Chiesa cattolica alla vigilia della Conferenza di Panglong dove si gioca il futuro del Myanmar

Non c’è pace senza giustizia

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18 agosto 2020

Il Myanmar vive una preziosa opportunità per promuovere una pace stabile e duratura in un Paese tormentato da conflitti etnici. È questa la visione della Chiesa birmana alla vigilia della quarta sessione della Conferenza sulla pace di Panglong del XXI secolo, come è stato intitolato il vertice che si tiene nella capitale Naypyidaw dal 19 al 21 agosto. Il summit vede riunite allo stesso tavolo le entità, le organizzazioni e i gruppi che hanno combattuto contro l’esercito regolare e condiviso l’accordo di tregua nazionale (Nationwide Ceasefire Agreement) siglato nel 2015, ma anche movimenti armati che hanno continuato la ribellione. I temi in agenda, per quella che si preannuncia come una conferenza determinante per il futuro del Paese, riguardano sia l’attuazione e l’allargamento dell’accordo di cessate-il-fuoco sia ulteriori negoziati sui principi basilari per formare un’unione federale. Va notato che per la prima volta il federalismo, idea finora rigettata a priori dal governo centrale, fa il suo ingresso al tavolo negoziale, e potrebbe risultare un tema cruciale in vista delle elezioni politiche previste nel prossimo autunno.

L’ultima conferenza di pace si è tenuta nel settembre 2016, quando si era per la prima volta insediato il governo civile di cui è parte il premio Nobel Aung San Suu Kyi, ministro degli Esteri e consigliere di Stato, ruolo simile a quello del primo ministro che le conferisce potere effettivo sulle principali questioni di governo. Quella conferenza si chiuse con una roadmap per la riconciliazione nazionale e la pace, che prevedeva sette passaggi, alcuni dei quali rimasti lettera morta, che oggi vengono nuovamente posti all’ordine del giorno. Aung San Suu Kyi ha espresso fiducia sull’imminente raduno, affermando che «il processo di pace in Myanmar è tornato sulla buona strada; siamo ora in grado di tenere un’altra sessione della Conferenza di pace di Panglong del XXI secolo e potremo formulare, attraverso l’attuazione graduale, accordi politici su un’unione federale democratica, per la riconciliazione nazionale e la pace».

La leader si sente particolarmente coinvolta perché la speciale conferenza di pace prende il nome della città in cui suo padre, Aung San, firmò un accordo nel 1947 con i leader di alcuni dei principali gruppi etnici: shan, kachin e chin. Il patto si sciolse poco dopo l’indipendenza del Paese dalla Gran Bretagna, nel 1948, generando decenni di guerre e controversie ancora irrisolte sull’autonomia.

Il moderno raduno di Panglong rappresenta l’ultimo dei quattro round negoziali tenuti sotto il governo della Lega nazionale per la democrazia (Nld) prima delle elezioni generali previste a novembre. Per questo la conferenza viene definita «un’occasione d’oro» dai leader religiosi del Myanmar che, riuniti nell’organizzazione Religions for Peace, hanno diffuso un accorato appello «a tutti i leader del Myanmar affinché si ascoltino l’un l’altro, e decidano di cercare il bene di tutti. Invitiamo ognuno a cogliere l’attimo perché il popolo del Myanmar merita la pace, non una guerra senza fine», hanno aggiunto i leader delle principali religioni presenti, rimarcando: «Non può esserci pace senza giustizia. Non può esserci giustizia senza verità. Facciamo nascere un nuovo Myanmar di speranza, pace e prosperità. Cogliamo questa opportunità».

Facendosi interprete del desiderio di pace e di riconciliazione della comunità cattolica birmana e dell’intera popolazione, a nome della Chiesa in Myanmar il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, ha diffuso un messaggio in cui ricorda che, in tempo di pandemia, «il segretario generale delle Nazioni Unite e Papa Francesco invocano che tutti i conflitti siano sospesi in modo da sconfiggere un nemico più grande e comune. All’indomani di questa crisi del covid-19 e seguendo la nostra storia di inutili conflitti — rileva il porporato — non c’è altra via che il dialogo. Il dialogo scaturisce da menti e cuori aperti, da quella passione per la verità senza la quale la società si disintegra. Siamo tutti danneggiati dalla guerra. Solo con la pace l’umanità vince».

La Chiesa cattolica vede oggi plausibile la prospettiva del federalismo economico e politico e invita «a procedere su questo cammino attraverso un dialogo rispettoso e il potere della negoziazione», osserva Bo, invitando ad «abbandonare soluzioni militari controproducenti» e a scegliere «la cooperazione, la civiltà e la sagacia», lavorando per una pace inclusiva di tutti i gruppi etnici, senza alcuna discriminazione. «Le armi più potenti della democrazia sono gli strumenti della riconciliazione e della giustizia», ha ricordato l’arcivescovo di Yangon. «Pace significa sviluppo. La pace è il nostro destino. Possa questa conferenza trovare la visione, il coraggio e il cuore per intraprendere la via della pace», ha concluso.

Non sarà, tuttavia, un cammino in discesa quello che si delinea nel vertice di Naypyidaw. Sul processo di pace pesano diversi fattori: la forza di contrattazione delle diverse forze in campo, che possono contare sulla pressione militare dei relativi eserciti locali; i conflitti in corso, soprattutto negli Stati di Chin e di Rakhine, ai quali contribuiscono gruppi armati esclusi dal negoziato e, come nel caso dell’Arakan Army, iscritti nella lista dei gruppi terroristici. Gli attuali negoziati sono indeboliti dall’assenza di diversi importanti gruppi etnici. I ribelli del Karenni National Progressive Party non parteciperanno all’incontro e la federazione di altri sette gruppi etnici ha annunciato il forfait, ufficialmente a causa del covid-19 ma, ufficiosamente, in segno di protesta per l’esclusione dell’Arakan Army, che combatte in uno degli scenari più violenti, quello dello stato di Rakhine, dove proseguono bombardamenti e sfollamenti di civili.

Scontri armati hanno interessato negli ultimi mesi anche gli stati di Chin, Karen e Shan, aree in cui è forte la presenza di minoranze cristiane, musulmane e indù. In particolare il cristianesimo — seconda religione del paese dopo il buddismo — è praticato soprattutto da popolazioni di etnia chin, kachin, karen, shan e da eurasiatici, ed è professato da circa l’1,5 per cento dei cinquantatré milioni di abitanti della nazione dove vivono centotrentacinque diversi gruppi etnici.

Sebbene non tutte le organizzazioni armate etniche saranno presenti, i negoziati costituiranno la base per costruire un’unione federale, che può nascere solo da una riconciliazione nazionale. In questa prospettiva prosegue instancabile l’azione della comunità cattolica che «ha tuttora un ruolo importante nel processo di pace in Myanmar», riferisce a «L’Osservatore Romano» Stephen Tjephe, vescovo della diocesi di Loikaw, capoluogo dello stato birmano di Kayah, definito la “roccaforte del cattolicesimo”, con circa il 30 per cento di fedeli tra la popolazione. Il presule nota con soddisfazione che in questo Stato il cessate-il-fuoco regge ormai da anni e non vi sono episodi di violenza: «Il popolo birmano, di ogni etnia e cultura, desidera la tregua, anela alla pace, è pronto a lavorare per una nazione democratica, giusta e pacifica, in cui nessuno si senta escluso», ha dichiarato indicando la direzione della roadmap e partendo da una realtà, quella del Kayah, dove il 75 per cento degli abitanti appartiene a minoranze etniche.

Pari opportunità, uguaglianza, riconoscimento dei legittimi diritti, inclusione, prosperità: su queste parole-chiave si gioca il futuro del Myanmar.

di Paolo Affatato