L’irruzione del Mistero che trasforma la vita del credente

Liturgia e bellezza

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28 agosto 2020

Scrive Papa Francesco nell’Evangelii gaudium, al n. 24, che «la Chiesa evangelizza e si evangelizza con la bellezza della Liturgia, la quale è anche celebrazione dell’attività evangelizzatrice e fonte di un rinnovato impulso a donarsi». Questo pensiero ci aiuta a cogliere come l’irruzione del Mistero nella nostra vita avvenga per viam pulchritudinis, ossia attraverso segni sensibili colmi di bellezza, quali sono appunto le azioni liturgiche. Sì, ma cosa è la bellezza? E come riconoscerla?

Liturgia e bellezza non si coniugano solo a partire dall’estetica, ossia da ciò che è percepito con i sensi, anche se si deve dire che sono proprio i nostri sensi a cogliere il bello. Non basta celebrare in una chiesa “bella” dal punto di vista artistico né indossare paramenti preziosi e usare vasi d’argento cesellati a mano per sentire la bellezza della fede celebrata. La bellezza si coniuga in liturgia a partire dalla natura stessa della liturgia, che è presenza partecipata attraverso segni sensibili dell’opera della salvezza, vera bellezza di cui noi uomini abbiamo bisogno. Ricordava Benedetto XVI in Sacramentum caritatis n. 35 che «la bellezza non è un fattore decorativo dell’azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l’azione liturgica risplenda secondo la sua natura propria». È dunque la bellezza di Cristo, del suo Vangelo, dei suoi misteri, della sua morte e risurrezione, della sua presenza viva, adesso e qui, che rende bella, buona, desiderabile, attraente, l’azione liturgica. Senza fede, resta impercettibile la bellezza del mistero celebrato. È infatti il credente a essere chiamato in causa parlando di bellezza e liturgia, poiché alla fede si arriva tramite i sensi, raggiunti da preghiere, canti, silenzio e gesti concreti, come il lavacro con l’acqua, l’unzione con l’olio, la comunione al Pane eucaristico, l’imposizione delle mani. L’esperienza liturgica avviene, infatti, attraverso un regime di “signa sensibilia” come scrive Sacrosanctum Concilium al n. 7, secondo la linea che va dall’Incarnazione alla celebrazione: «quanto del nostro Redentore era visibile è passato nei sacramenti», osservava san Leone Magno (De Ascensione Domini ii, 2). Sono allora i “segni visibili” a contare, pur consapevoli che sono soltanto veicoli di realtà altre e non i destinatari. Il movimento che interpella va dalla bellezza del Misterium Christi alla bellezza dell’azione che lo rende sacramentalmente presente “per signa sensibilia”.

Quali “segni sensibili” parlano di bellezza?

Siamo portati a rispondere che parla di bellezza ciò che cade sotto il nostro sguardo, ossia il bello che si vede davanti a un’immagine, una scultura, l’architettura, i colori, le vesti, le decorazioni. È dunque l’occhio a essere chiamato in causa. Sappiamo tuttavia che, in liturgia, il Mistero celebrato è realtà “invisibile” allo sguardo umano. La visione infatti può ingannare, nel senso che può distrarci dal Mistero oppure equivocarlo. Il rischio dell’idolatria è sempre presente e anche dopo l’incarnazione di Cristo, volto visibile dell’Invisibile, l’immagine può essere maschera e non volto. L’azione liturgica non è dunque bella o brutta secondo ciò che i nostri occhi vedono di bello o di brutto, secondo cioè il criterio “mi piace - non mi piace”, dal momento che l’approccio visivo non è esaustivo pur avendo la sua importanza poiché non è irrilevante celebrare nel duomo di Milano o in un garage-chiesa di una periferia. Ci può essere una bella liturgia in un ambiente non bello e, al contrario, una liturgia insipida in una chiesa bellissima.

L’accostamento al visivo si può approfondire meglio alla luce della differenza tra vedere, guardare, contemplare. Le immagini di una chiesa possono condurci a conoscere le realtà invisibili a seconda della loro qualità “teologica”, ma anche della nostra capacità di guardarle, leggerle, fino a contemplarle in funzione dei misteri celebrati. Di per sé, in una chiesa, l’iconografia non dovrebbe essere decorativa ma ministeriale, ossia al servizio della liturgia.

Dopo la vista, è il suono a parlarci di bellezza e, di conseguenza, è l’orecchio a essere interpellato, con la sua capacità di udire, di ascoltare e ancora più di interiorizzare. Penso alla musica e al canto, che ci fanno esclamare: che bello!, senza farci vedere nulla, anzi, magari portandoci a chiudere gli occhi per gustare meglio l’incanto delle note. A differenza dell’occhio, l’orecchio è un organo che non possiamo chiudere e il suo essere sempre aperto dice ricezione continua: certo vi è differenza tra udire e “prestare ascolto”, scelta volontaria che non dice solo apertura ma attenzione a comprendere il messaggio, a riconoscerlo, accoglierlo, e reagire emotivamente. Pensiamo alla liturgia della Parola, con la carica di bellezza che possiede ciò che «esce dalla bocca dell’Altissimo». La percezione del fascino della chiamata: Seguimi!, non è data dall’udire un suono ma dal prestare ascolto alla voce di Qualcuno realmente presente, che si rivolge proprio a me, ora, e che interiorizzata nella cassa di risonanza dell’io, facendolo vibrare, suscita la risposta: eccomi. Naturalmente, l’ascolto non riguarda solo la Parola divina ma anche la bella voce della Chiesa in preghiera. Perciò letture bibliche, orazioni, inni, antifone, responsori, acclamazioni, sono elementi di rilievo per il nostro argomento. Certo non sono soltanto le parole in sé a essere importanti, ma il come vengono proferite: il timbro della voce è più importante delle parole; anche per il canto è decisivo il contenuto e la funzione: un bel canto eseguito fuori luogo, non aiuta a cogliere la bellezza di quel peculiare momento liturgico. C’è differenza tra un’azione liturgica e un concerto di musica sacra.

Dunque, attraverso l’occhio e l’orecchio, la bellezza del Mistero celebrato arriva al cuore, lì dove si sperimenta la metamorfosi, la conversione, il cambiamento, che trova espressione in gesti e parole, ossia tramite il corpo e la bocca. Sono i nostri atteggiamenti esteriori (stare in piedi, in ginocchio, seduti, prostrati, con le braccia aperte) a esprimere il sentire del cuore, così come le parole che proferiamo con la bocca (preghiere, acclamazioni, canti, invocazioni, lodi), manifestano la reazione del nostro animo.

Spazi e tempi, immagini e suoni, gesti e preghiere, forme e colori, contribuiscono a plasmare negli oranti l’esperienza della bellezza liturgica. E ciò in un ritmo scandito dal ritornare a celebrare, giorno dopo giorno, anno dopo anno, festa dopo festa, fino all’ingresso nella liturgia del Cielo.

Che cosa declina la bellezza in liturgia?

La celebrazione è bella poiché manifesta l’Amore che fa nuove tutte le cose (cf. Ap 21,5). L’estetica in liturgia risplende alla luce del Mistero pasquale, sorgente di ricreazione per l’umanità non bella. E il mistero di Cristo celebrato ci porta sempre al cuore, che è la Croce, ossia il dono di sé per amore, fino alla morte, perché altri vivano. La grazia che trasforma in bello ciò che è diventato brutto per l’allontanamento da Dio, trae origine dal Crocifisso, dal momento che «Colui che non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi » — come dice Isaia 53,2-3 — resta sempre «il più bello tra i figli dell’uomo» (Sal 45, 3), la causa della spirituale bellezza della Chiesa. La liturgia, memoriale della Pasqua di Cristo, è infatti la sorgente inesauribile della bellezza della Sposa, «senza macchia né ruga» come scrive san Paolo (Ef 5,27). Giustamente osserva sant’Agostino che «sfigurato il Cristo pendeva in croce: ma la sua bruttezza era la nostra bellezza» (Sermo 27, 6: nba 29, 522; pl 38, 181). E commentando la bellezza di Cristo, così si esprime: «Perché anche sulla croce aveva bellezza? Perché la follia di Dio è più sapiente degli uomini; e la debolezza di Dio è più forte degli uomini (cf. 1 Cor 1,23-25). A noi dunque che crediamo, lo Sposo si presenta sempre bello. Bello è Dio, Verbo presso Dio; bello nel seno della Vergine, dove non perdette la divinità e assunse l'umanità; bello il Verbo nato fanciullo, perché, anche mentre era fanciullo, mentre succhiava il latte, mentre veniva portato in braccio, i cieli hanno parlato, gli angeli hanno lodato, la stella ha diretto il cammino dei magi, è stato adorato nel presepio, cibo per i mansueti. è bello dunque in cielo, bello in terra; bello nel seno, bello tra le braccia dei genitori; bello nei miracoli, bello nei supplizi; bello nell'invitare alla vita, bello nel non curarsi della morte; bello nell'abbandonare la vita e bello nel riprenderla; bello sulla croce, bello nel sepolcro, bello in cielo» (Sul Salmo 44, 3: nba 25, 1079.1081; pl 36, 495).

La bellezza in liturgia passa attraverso l’ordinamento rituale e la sua sapiente messa in pratica, con i suoi ritmi, spazi, parole, silenzi, azioni, cose. L’armonia del linguaggio simbolico-rituale, che non è lasciato all’improvvisazione del soggettivo, fa sì che tutto parli a noi del Signore e di noi al Signore, tutto rimandi ai suoi gesti, lasciando trasparire per quanti partecipano la bellezza che converte e salva, poiché ciò che è toccato da Dio diventa pieno di grazia e di bellezza. L’azione liturgica non è bella, dunque, perché se-duce attirando sul visibile che la qualifica, ma perché con-duce dal visibile all’invisibile Mistero, dall’udibile all’ineffabile, che è ciò di cui il nostro cuore ha desiderio insaziabile: pensiamo al Salmo 62, pregato alle Lodi della domenica della prima settimana, esemplare per dire, ripetutamente, a Chi porta la preghiera mattutina del credente: «O Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come deserta, arida, senz’acqua». Una buona ritualità lascia perciò trasparire quella che si può chiamare bellezza sorgiva della liturgia e che fa esclamare con lo stesso entusiasmo di Pietro: «Signore, è bello per noi essere qui!» (Mt 17,4). «È bello essere qui, radunati nel tuo nome, perché ci sei tu, Signore!». Senza la presenza viva del Signore nulla è bello nella liturgia! La liturgia non cerca la bellezza fine a se stessa, autoreferenziale, narcisistica: cerca solo il Signore e la comunione con lui, e in lui tra di noi. Trovato realmente il Signore, tutto diventa motivo di lode e di azione di grazie come canta un prefazio: «fatti voce di ogni creatura esultanti cantiamo: Santo, Santo, Santo».

Sentiamo che celebrare la fede è davvero bello se diventa esperienza iniziatica, ossia se non resta un fatto al fuori di noi, ma trasforma chi vi partecipa: l’impatto del bello si misura sull’effetto che produce nella mente (pensiero), nel cuore (gli affetti e le relazioni), sulla condotta di vita (scelte quotidiane). Non si tratta semplicemente di vedere o ascoltare qualcosa di bello per gli occhi e gli orecchi, ma di varcare una soglia, attraverso lo sguardo e l’ascolto, che ci permette di entrare col cuore dentro il Mistero, per abitarlo. Un tramonto è bello se è gustato per l’impatto che ha su di me mentre lo guardo e non se è occasione per fare un selfie. Quando non è più l’azione rituale ad avere senso ma le belle fotografie scattate nel corso di essa, la bellezza dell’esperienza liturgica è compromessa. Non si deve dimenticare che l’azione liturgica non è fine a se stessa: è ordinata alla vita, e raggiunge il suo compimento nella vita dei credenti. È difficile sondare l’incidenza che la bellezza della liturgia lascia nell’animo dei singoli oranti come nel sentire di una comunità. Si può però ben percepire dalla loro capacità di farsi dono di amore.

di Corrado Maggioni