A 200 anni dalla pubblicazione de «Il Conte di Carmagnola»

La polvere dopo la gloria

Studio di Francesco Hayez per il dipinto «Il Conte di Carmagnola» (1820)
19 agosto 2020

Il conte di Carmagnola è una delle soglie che Manzoni deve attraversare per arrivare al Fermo e Lucia prima e al capolavoro definitivo poi. Alcuni elementi di quello che diventerà il lungo e accidentato percorso dei Promessi sposi sono infatti già presenti nella prima delle sue due tragedie (in realtà il Lombardo ne aveva progettata un’altra sulla ribellione di schiavi guidata da Spartaco, mai realizzata): la Storia dei libri, con la maiuscola, quella privata degli uomini, la gloria e il disastro, l’esaltazione e la solitudine, l’uomo come mezzo talvolta inconsapevole per il potere e non come attore cosciente fino in fondo. Queste facce della storia entrano in un contatto urticante con l’altro. Un altro che era stato negli anni prima della conversione il libero arbitrio, la volontà, il gioco caotico dei sensi.

La letteratura libertina, che Manzoni aveva conosciuto, non era solo un miscuglio di sesso e azzardo, ma qualcosa di molto più complesso e difficile da comprendere in poche definizioni. Ragione e disperazione, domande angosciose sul senso della vita e azzardo avevano lasciato tracce nell’inquieta coscienza di Alessandro, soprattutto nelle descrizioni della annoiata vacuità di don Rodrigo e nella ostinata volontà di compiere il male per il male in Egidio. Descrizioni che rivelavano la profonda conoscenza dei meccanismi che stanno alle radici della trasgressione e del voler andare oltre. Il Conte di Carmagnola esce esattamente due secoli fa, ma già nel 1816 Manzoni leggeva i testi storici, soprattutto quello del Sismondi, alla ricerca di notizie su Francesco di Bartolomeo Bussone, giovane pastore tolto ai pascoli da un condottiero che aveva notato il suo aspetto precocemente marziale e lo aveva portato con sé a farsi le ossa nelle varie guerre a pagamento che infuriavano nell’Italia settentrionale dalla crisi dei comuni all’avvento delle signorie. Aveva raggiunto l’apice della gloria combattendo per i signori di Milano, dopodiché, sentendosi messo da parte da Filippo Maria Visconti, aveva accettato la guida dell’esercito della Serenissima nella guerra proprio contro Milano ottenendo una storica vittoria nella battaglia di Maclodio nel 1427.

Poi però, il meccanismo che Manzoni aveva capito essere una delle costanti della storia, si era rimesso in moto, con il pretesto della liberazione dei prigionieri dopo Maclodio, che in realtà era un uso comune a quei tempi. Arrivò subito il sospetto di doppiogiochismo. In realtà Francesco era divenuto troppo forte e amato dai suoi soldati, e quindi un possibile pericolo per gli equilibri della Serenissima. Che infatti lo condanna a morte e se ne libera in un battibaleno. Questa è la tesi innocentista che Manzoni fa sua, tesi peraltro impugnata da molti storici. Ma il punto non è questo. Come accadrà al Napoleone del Cinque maggio dell’anno successivo alla pubblicazione del Conte, l’attenzione dello scrittore si concentra sull’irrisolvibile enigma umano della polvere dopo la gloria: cosa prova un uomo che ha avuto tutto per i suoi meriti e il suo valore e che nonostante questo si ritrova a finire in solitudine e isolamento? Non c’è dunque senso nelle umane azioni?

«Nulla da temer più resta» è la sibillina frase detta dal conte prima della sua esecuzione. Che in realtà vuole affermare come il piano divino agli occhi degli uomini possa apparire senza senso, «un racconto narrato da un idiota, pieno di strepiti e furore, che non significa nulla», avrebbe scritto lo Shakespeare del Macbeth. E Shakespeare era un autore molto gradito a Manzoni, perché aveva messo in guardia dalla presunzione e dal delirio di onnipotenza dopo i successi o l’ottenimento del potere. Non possiamo stabilire il nostro destino, perché esso non è nelle nostre mani. C’è un senso nella vita, e lo si può anche intravedere, a patto di non cercarlo nelle corone e nelle ricchezze, ma nella quotidiana lotta per conservare la scintilla del bene che qualcuno ha acceso nel nostro codice.

L’occhio dello scrittore stava abbandonando le corti e le regge, e stava posandosi sugli umili, in apparenza così poco scenografici. Stava nascendo il romanzo moderno, il nuovo eroe era l’uomo di tutti i giorni che aveva il coraggio di affrontare i draghi e le affascinanti sirene del mare della vita. E I promessi sposi ne sarebbero stati una pietra miliare, riconosciuta come tale anche da Goethe, che sul versante religioso — e non solo — era piuttosto distante da Manzoni. La vera arte mette d’accordo se non tutti, molti. I più onesti, almeno.

di Marco Testi