Etica e lavoro secondo Adam Smith

La filosofia dello spillo

La prima edizione della «Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni» (1776)
26 agosto 2020

L’economia non era ancora una disciplina accademica quando Adam Smith si cimentò, con indefessa lena, con gli studi di filosofia sociale e morale, prima all’Università di Glasgow e poi al Balliol College di Oxford. Giocò dunque d’anticipo il filosofo ed economista scozzese gettando — con mirabile lungimiranza — le basi dell’economia politica classica. La sua opera Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776) non solo rappresenta il fiore all’occhiello della sua produzione, ma all’epoca costituì il testo di riferimento per tutti gli economisti destinati a chiara fama, da David Ricardo a Robert Malthus, da Jean Baptise Sai a John Stuart Mill.

Muovendo da una severa critica nei riguardi dei mercantilisti e dei fisiocratici — da lui ritenuti responsabili di logiche di mercato polverose, retrograde e non funzionali al benessere della collettività — Smith tracciò le coordinate di un sistema di pensiero che oggi, con termine moderno, si definirebbe macroeconomia: vale a dire, una filosofia di carattere economico interessata a coltivare e a promuovere le forze che determinano la crescita economica di un Paese. Con Adam Smith, in sostanza, prese forma e sostanza un modello economico innervato di illuminanti considerazioni di tipo politico, sociologico e storico.

Uno dei principi fondanti del pensiero di Smith è rappresentato dalla divisione del lavoro che consente l’incremento della produttività. In quest’ottica si afferma il concetto, dalla forte rilevanza etica, della valorizzazione dell’individuo e delle sue competenze: il lavoratore deve essere messo nelle migliori condizioni, laddove ciò è possibile, di esprimersi al meglio, promuovendone potenzialità e capacità. Per argomentare l’importanza della divisione del lavoro, Smith ricorse al noto esempio della “manifattura di spilli”. Se un individuo deve, da solo, fabbricare spilli partendo dall’estrazione dal suolo della materia prima fino alla realizzazione di ogni singola fase artigianale, difficilmente riuscirà a produrre elevate quantità di spilli in poco tempo. Se invece a questo individuo viene fornito il filo metallico già pronto, egli riuscirà ad aumentare sensibilmente la produzione. Con la suddivisione delle varie fasi artigianali e l’assunzione di queste da parte di più artigiani specializzati in una singola fase, allora la produzione di spilli sarà nettamente superiore alla somma degli spilli che verrebbero prodotti, dallo stesso numero di individui, nelle modalità produttive precedenti. L’economista scozzese era comunque consapevole che alla divisione del lavoro si legano anche conseguenze negative. La specializzazione verso un’unica attività e la realizzazione di operazioni semplici, ripetitive e meccaniche infatti rischiano di comportare l’intorpidimento dell’immaginazione, nonché la riduzione delle capacità intellettuali dell’individuo. Per cercare di sanare tale discrepanza, Smith propugnò lo sviluppo dell’istruzione finanziata dallo Stato, da lui sensibilizzato a «prendere a cuore» la sorte delle classi lavoratrici intese come il motore dell’economia e fulcro del processo di crescita. Un ruolo non certo marginale, nel pensiero di Smith, è rivestito dal concetto di risparmio: in esso egli riconosce un elemento determinante per il buon funzionamento del sistema economico poiché a una mirata e saggia logica del risparmio indissolubilmente si lega la fruizione del capitale. Maggiore è il risparmio, maggiore è la possibilità di disporre di capitale fisso e circolante.

Una sorta di giornalista ante litteram, Adam Smith, per corroborare le proprie argomentazioni, amava ricorrere ad immagini esplicative. Per introdurre e chiarire la distinzione fra valore d’uso (utilità) e valore di scambio (facoltà che il possesso di un oggetto conferisce nell’acquisire altri beni) l’economista addusse l’esempio, anch’esso poi divenuto noto, dell’acqua e del diamante. L’acqua, bene indispensabile, ha un prezzo inferiore al diamante, che è invece «il più superfluo fra tutti gli oggetti superflui». L’acqua ha un elevato valore d’uso, ma un basso valore di scambio, mentre il diamante possiede uno scarso valore d’uso ma può vantare un grande valore di scambio.

Prendendo le distanze dai mercantilisti e dalla loro politica sostanzialmente protezionista, Smith contrappose la difesa del libero scambio. La soppressione di freni al commercio interno ed esterno, come pure l’accesso a nuovi mercati attraverso il miglioramento della rete di trasporti, favorisce — sostiene l’economista scozzese — la divisione del lavoro aumentando di conseguenza sia la produzione economica, sia il benessere collettivo. Il libero scambio, così come è configurato da Smith, presuppone il cosiddetto “principio di simpatia”: ogni individuo conosce come nessun altro i propri interessi, ma in questi interessi vi è il desiderio di essere apprezzato dagli altri. Questa dinamica rende il mercato — nelle intenzioni di Smith — non un campo di combattimento, ma un luogo di convergenza di differenti interessi personali. C’è un passo, nell’opera intitolata Teoria dei sentimenti morali (1759) in cui risalta, con particolare forza, una dimensione etica che conferisce al pensiero di Smith un alto valore e un respiro profondo. «Nella corsa alla ricchezza, agli onori e all’ascesa sociale — scrive l’economista — ognuno può correre con tutte le proprie forze per superare tutti gli altri concorrenti. Ma se si facesse strada a gomitate o spingesse per terra uno dei suoi avversari, l’indulgenza degli spettatori avrebbe termine del tutto. La società non può sussistere tra coloro che sono sempre pronti a danneggiarsi e a farsi torto l’un l’altro».

A coloro che ne hanno elogiato, in particolare, la lungimiranza nell’intuire, nell’ambito dell’economia, nuovi percorsi e nuovi orizzonti, si fa presente che Smith non sempre è stato “profetico”: anzi, talvolta, è stato anche “miope”. In equilibrio tra queste due posizioni si colloca John Kenneth Galbraith che nella Storia dell’economia (1987) così dirime la questione: «Ma, se non vide, o e non previde completamente la Rivoluzione industriale nella sua piena manifestazione capitalistica, Smith osservò con grande chiarezza le contraddizioni, l’obsolescenza e, soprattutto, l’angusto egoismo sociale del vecchio ordine. Se egli era un profeta del nuovo, ancor più era un nemico del vecchio».

di Gabriele Nicolò