Nuova edizione per «Il Fattore Umano» di Graham Greene

L’unica certezza

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10 agosto 2020

Pubblicato nel 1978, Il Fattore Umano è l’ultimo dei grandi romanzi scritti da Graham Greene, autore prolifico e testimone in prima persona della crisi finale del sistema geopolitico mondiale dominato dal Regno Unito e dalla sua classe dirigente, alla quale egli apparteneva per nascita ed educazione. Il libro viene riproposto in questi giorni dall’editore Sellerio nella traduzione realizzata da Adriana Bottini negli anni Settanta per Mondadori, che non risente affatto degli anni trascorsi, accompagnato da una nota introduttiva di Enrico Deaglio e da una postfazione di Domenico Scarpa (Palermo, 2020, pagine 472, euro 15).

Fra le altre vicende della sua lunga vita, morì quasi novantenne nel 1991, Greene conta un periodo di militanza nel m16, il servizio segreto dell’esercito britannico, dove fu per anni alle dipendenze e in amicizia con Kim Philby, forse la più celebre spia del dopoguerra. Philby, militante comunista fin dall’adolescenza, fu infiltrato dai sovietici nei servizi di intelligence inglesi dei quali, grazie alle capacità personali e allo status sociale di appartenenza, raggiunse i vertici; venne scoperto per caso, ma riuscì a riparare in Urss dove trascorse in grande tranquillità gli ultimi venticinque anni di vita. In ambito personale Greene visse la conversione dal protestantesimo al cattolicesimo, un’esperienza che lo aiutò a sviluppare una sensibilità attenta ai temi della fede ma ancor più a quelli antropologici, della ricchezza spirituale e affettiva di cui ciascun essere umano è dotato.

Ambedue questi aspetti della biografia del romanziere, prima ancora che della sua personalità, caratterizzano Il Fattore Umano. Il romanzo è una spy story, genere del quale Graham Greene va considerato uno dei creatori, nella quale sono calate situazioni, tensioni, dubbi e riflessioni di sorprendente modernità, soprattutto se confrontate con la personalità e le avventure di James Bond, il celebre personaggio ideato da Ian Fleming, di quattro anni più giovane di Greene, la cui trasposizione cinematografica conosceva il suo massimo successo proprio negli anni Sessanta, quando a interpretarlo fu Sean Connery. Nel testo del Fattore Umano i riferimenti alla figura di Bond sono numerosi ed espliciti, sempre proposti in senso antifrastico, come modello in opposizione alla vita reale dell’agente segreto, caratterizzata non da vicende emozionanti quanto piuttosto dalla noia causata dalla ripetitività dei compiti quotidiani e dalla necessità di rispettare norme restrittive nella vita privata.

Fin dalla sua apparizione la critica ha riconosciuto al Fattore Umano la qualità di descrivere alla perfezione l’ambiente classista, amorale, privo di scrupoli e di tensioni etiche dei servizi segreti britannici. Tutto ciò resta senza dubbio vero, ma si tratta della componente della narrazione che più risente del passaggio del tempo; nonostante le forti resistenze opposte dall’establishment, nell’ultimo mezzo secolo la società inglese si è trasformata e ha perduto almeno le apparenze della sua organizzazione per ceti sociali distanti e impermeabili ai trasferimenti da un gruppo all’altro. Quanto all’atteggiamento morale è difficile aspettarsi un livello elevato in un contesto di spie.

In totale contrasto con il dato ambientale e assolutamente vitale è invece la riflessione sviluppata da Greene sull’uomo e sulla donna, sulla loro capacità di amare, sul concetto di fedeltà e su quello di gratitudine, più in generale sul bene e sul male e sull’estrema difficoltà di incontrarne manifestazioni dall’interpretazione chiara e univoca.

L’unico limite etico condannato, in un mondo nel quale gli affetti sono riconosciuti come la sola vera ricchezza, è il cinismo, nel quale i membri dell’élite britannica sono stati maestri nel secolo dell’impero, quando lo sfruttamento delle ricchezze del mondo e l’oppressione di una larga parte dell’umanità, e a volte il genocidio, furono condensati nella definizione di “fardello dell’uomo bianco”.

Nel Fattore Umano Greene inserisce un dialogo che spiega bene il suo punto di vista, la sua antropologia ottimista, nella quale le motivazioni sono ideali, più che utilitarie, o comunque sono state formulate ed elaborate da ciascuno con fatica e sofferenza, in un ambito complesso, attraverso una ricerca continua del bene, nelle forme nelle quali è possibile immaginarlo. Il protagonista, Maurice Castle, che appartiene ai servizi segreti inglesi, si confronta con un agente sovietico in un contesto di assoluta sincerità. «La sua fede non ha mai vacillato? Sì, insomma Stalin, l’Ungheria, La Cecoslovacchia» chiede Castle. «Ne avevo viste abbastanza da giovane, in Russia e anche in Inghilterra, da essere vaccinato contro simili inezie», replica l’agente sovietico. «Inezie?». «Potrei ribatterle: e Amburgo, Dresda, Hiroshima? Non hanno scosso la sua fede nella vostra cosiddetta democrazia?».

La lezione di Greene sembra essere che morale e politica sono ambiti complessi, nei quali ciascun uomo e ciascuna donna debbono muoversi con circospezione, sempre attenti a non emettere giudizi precipitosi e mai dimentichi del mistero del peccato originale. L’unica certezza è quella dell’amore, per proteggere il quale ogni sacrificio è giusto e legittimo.

di Sergio Valzania