«O Tu, abbi pietà» scrisse sul suo diario pochi giorni prima di togliersi la vita

L’ultima preghiera

Cesare Pavese con Doris Dowling, sorella minore di Constance, alla quale aveva dedicato «La luna e i falò»
26 agosto 2020

Un uomo in abito di gabardine verde entra, preceduto da una donna elegantissima, nel giardino dell’Hotel de Ville di via Sistina a Roma, dove lo attende una piccola folla. È la sera del 24 giugno del 1950. L’estate, una delle più calde del secolo, è appena incominciata. L’uomo sale su una sedia e pronuncia, con ironica nonchalance, poche parole all’indirizzo dei presenti: «Si consolino i perdenti. I libri più importanti di una generazione non prendono premi». Si chiama Cesare Pavese, ha quasi quarantadue anni, è uno dei più famosi scrittori italiani, ed è sceso a Roma da Torino per ricevere il Premio Strega, assegnatogli per La bella estate, trittico di romanzi brevi pubblicato nel 1949 da Einaudi, la casa editrice di cui è uno dei più illustri funzionari. Ottiene 121 voti, lasciandosi alle spalle, tra gli altri, Curzio Malaparte e Concetto Marchesi.

Le cronache di quel giorno lo descrivono rilassato, a suo agio, cordiale e disposto alla conversazione. C’è chi indulge a qualche cenno di gossip spiegando come la raffinata accompagnatrice, l’attrice americana Doris Dowling, sia “soltanto” la sorella minore di Constance, la donna, anche lei attrice, che Pavese aveva conosciuto a Roma alla fine dell’anno precedente e alla quale, perdutamente innamorato, aveva dedicato La luna e i falò, in libreria da pochi giorni: For C. – Ripeness is all, «la maturità è tutto», si legge nell’epigrafe shakespeariana del romanzo posta accanto all’iniziale del nome della dedicataria. Constance è tornata in America ad aprile, e Pavese si aggrappa disperatamente all’amicizia di Doris come all’esile filo di un rapporto ancora possibile.

La disinvoltura di quella sera romana, e mondana, maschera un tormento esistenziale che va inasprendosi giorno dopo giorno. «Disgusto del fatto, dell’opera omnia. Senso di cagionevolezza, di decadenza fisica. Arco declinante. E la vita, gli amori, dove sono stati? Serbo un ottimismo: non accuso la vita; trovo che il mondo è bello e degno. Ma io cado». Così, il 14 gennaio, il doloroso appunto registrato sul diario sembra il consuntivo di una vita intera, compendiata nell’“opera omnia” di un intellettuale che in circa due decenni di attività ha prodotto romanzi, racconti, poesie, traduzioni — soprattutto di autori americani (Melville, Joyce, Dos Passos, Faulkner, Anderson, Steinbeck, Gertrude Stein, tra gli altri) —, dando corpo a un universo letterario amato, riconosciuto e rispettato da un folto pubblico di lettori. Fra le colline piemontesi, in cui affiorano forze selvagge misteriosamente connesse al mitico eterno ritorno dei ritmi della natura («là, sul confine tra cielo e tronco, poteva sbucare il Dio»), e le città, in cui l’opera dell’uomo sembra farsi protagonista della costruzione di un mondo nuovo («le città sterminate somiglian foreste / dove il cielo compare su su, tra le vie»), prendono vita personaggi — adolescenti, uomini e donne — alla ricerca del proprio destino, di una compiutezza morale, della “maturità”, appunto. Nel frattempo Pavese si accorge di essere «diventato quella strana bestia: un uomo fatto, un autorevole nome, un big», come appunta in una pagina di diario qualche mese prima di ritirare l’insigne Premio letterario.

E a Rosa Calzecchi Onesti, il 26 luglio, scrive: «Che lei mi trovi scrittore tormentato, una volta mi sarebbe piaciuto; ora, meno: ora vorrei pace, e basta». La definizione di un proprio stile, il perfezionamento di uno strumento di riconoscimento e di autoriconoscimento, non conduce alla maturità desiderata, ma rischia di diventare una maschera, come ha osservato Giulio Ferroni: «È difficile distinguere la costruzione di sé dalla fuga da sé, dal nascondersi agli altri, dal non essere mai veramente come si è. In questa contraddizione c’è una delle motivazioni essenziali del dramma di Pavese: quanto più egli si avvicina alla “maturità” stilistica, quanto più si convince di essere giunto alla costruzione di sé, tanto più egli si sente minacciato dalla menzogna e dalla perdita di sé».

Le pagine del diario e delle lettere di quell’anno sono disseminate di saluti di congedo ad amici e parenti («speriamo di vederci — chissà — magari in cielo»), di riferimenti a un futuro assente («vedremo in avvenire — se avremo un avvenire»), ai pochi giorni che gli restano da vivere («io sono, come si dice, alla fine della candela»), al suicidio. Fino al vero e proprio, esplicito, «consuntivo dell’anno non finito, che non finirò». Lo scrittore riconosciuto, l’“uomo fatto”, il “big”, si è sfilato l’abito di gabardine smeraldo ed è rimasto nudo: «Non ci si uccide per amore di una donna», aveva scritto il 25 marzo: «Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla».

Il 27 agosto del 1950, quando Pavese si toglie la vita con i barbiturici nell’Hotel Roma di Torino, è domenica, la tredicesima dopo Pentecoste, e nella messa si legge il Vangelo con l’episodio dei dieci lebbrosi sanati da Gesù (Luca 17, 11-19). Lo stigma del “riconoscimento” pubblico per loro non è maturità, ma coincide con il dolore delle piaghe e con l’esclusione dalle relazioni sociali. Così si rivolgono a quell’uomo che passa dicendogli: «Abbi pietà di noi». Anche Pavese, il 18 agosto, aveva scritto sul diario: «O Tu, abbi pietà». La stessa preghiera rivolta a chi, unico, ci conosce e ci riconosce davvero, ci guarisce e ci ama proprio nella nostra «nudità, miseria, inermità, nulla».

di Paolo Mattei