Il racconto pubblico di questo continente si basa spesso su una narrazione saltuaria, parziale e incentrata sovente su stereotipi

L’informazione prima forma di solidarietà in Africa

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11 agosto 2020

I ripetuti interventi di Papa Francesco a favore della fratellanza universale e della pace planetaria, dando voce alle moltitudini dei senza voce, hanno disegnato una vera e propria periferia esistenziale sulla quale dovremmo riflettere: quella dell’informazione. Il tema è di scottante attualità, soprattutto in riferimento al continente africano. Pur vivendo immersi in una cultura globalizzata, paradossalmente, l’opinione pubblica è spesso all’oscuro di fatti e accadimenti che avvengono in paesi come la Somalia, il Sud Sudan, o la Repubblica Democratica del Congo. Purtroppo, la mercificazione a cui è sottoposto l’intero comparto massmediale, la chiusura di molti uffici di corrispondenza imposta dalle politiche di austerity, nonché l’emissione affannosa di notizie resa necessaria dalle regole della comunicazione in tempo reale, rappresentano un forte limite nel raccontare i fatti e gli accadimenti su scala planetaria, in particolare quelli che si verificano nelle tante periferie africane.

«La nostra professione — diceva il compianto giornalista africanista, di nazionalità polacca Ryszard Kapuściński — è una lotta costante tra il nostro sogno, la nostra volontà di essere del tutto indipendenti e le situazioni reali in cui ci troviamo, che ci costringono invece ad essere dipendenti da interessi, punti di vista, aspettative dei nostri editori… In generale si tratta di una professione che richiede una continua lotta e un costante stato di allerta…». Chi scrive, ebbe modo di incontrare, conoscere e apprezzare Kapuściński in più circostanze, sia in Europa che in Africa. Ciò non toglie che i suoi nobili ideali, non trovino di questi tempi un felice riscontro nella prassi editoriale.

Per quanto l’areopago della stampa sia ancora oggi composto da bravissimi cronisti del suo calibro che avvertono il bisogno istintivo di raccontare quello che vedono, il sistema mediatico planetario — facendo la media tra società moderne e altre in via di sviluppo — comunica appena il 20 per cento delle notizie che tutti saremmo tenuti a conoscere. Lo constatava con grande amarezza, citando fonti accademiche statunitensi, il grande Sergio Zavoli, scomparso la scorsa settimana. Il che in sostanza significa che l’opinione pubblica sa poco o niente di quello che succede nel nostro pianeta, col risultato che l’ignoranza, intesa come non conoscenza di quanto avviene sul palcoscenico della storia, rappresenta un fattore altamente destabilizzante. Sebbene attraverso la rete internettiana sia possibile accedere ad una galassia di fonti che potrebbero soddisfare l’interesse dei curiosi, l’informazione “mainstream” lascia frequentemente molto a desiderare.

Emblematico è il caso dell’Africa. Infatti, il racconto pubblico di questo continente si basa spesso su una narrazione saltuaria, parziale ed incentrata sovente sugli stereotipi. Il focus, nella maggioranza dei casi, soprattutto in Europa, è sull’immigrazione via mare dalla sponda africana e sul controllo delle frontiere: tutte questioni che dominano prepotentemente le prime pagine dei quotidiani e le aperture dei notiziari insieme alle riflessioni sugli episodi di intolleranza e razzismo. Il problema di fondo è che non ci si può certo limitare alla cronaca degli sbarchi sulle coste del vecchio continente. Occorrerebbe infatti spiegare ai lettori e ai video/radio spettatori le vere ragioni della mobilità umana, con particolare riferimento agli avvenimenti che si susseguono nei paesi di provenienza dei migranti, spesso teatri di indicibili tragedie. Cosa che avviene grazie a qualche approfondimento, ma assai raramente. Ma non è tutto.

Uzodinma Iweala, giovane medico e scrittore statunitense di origini nigeriane sulla cresta dell’onda per i suoi romanzi, si domanda come mai l’impegno per l’Africa di star come Bono o Angelina Jolie siano oggetto di smisurate attenzioni da parte della stampa occidentale, mentre venga praticamente ignorato l’impegno solidale di africani come Nwankwo Kanu (ex giocatore di calcio della nazionale nigeriana, olimpionico e fondatore della Kanu Heart Foundation che ha lo scopo di fornire cure mediche ai bambini con malattie cardiache) o Dikembe Mutombo (ex cestista nella NBA della Repubblica Democratica del Congo, e fondatore della Dikembe Mutombo Foundation, che mira a migliorare la salute, l’istruzione e la qualità della vita delle persone nel suo paese di origine). «Non c’è un solo africano che come me non apprezzi gli aiuti provenienti dal resto del mondo» ha dichiarato pubblicamente Iweala, domandandosi però fino a che punto «quest’aiuto sia genuino, o se non venga dato nello spirito dell’affermazione di una superiorità culturale».

Quanto emerge, al netto delle critiche e delle polemiche, è la profonda stanchezza di questi africani come Iweala di fronte al modo prevalente in cui i loro popoli sono da decenni ritratti e raccontati, soprattutto quando la finalità è quella della raccolta fondi: stupire, emozionare per suscitare una generosità che diventa sempre più volubile, umorale e, in prospettiva, sempre meno motivata e duratura. Non è dunque sufficiente raccontare gli effetti della miseria, ma anche e soprattutto le ragioni che la determinano. Se da una parte, dunque, come soleva ripetere Zavoli «l’informazione è la prima forma di solidarietà», dall’altra occorre contrastare l’atteggiamento paternalistico, all’insegna della cosiddetta carità pelosa, di chi guarda ai poveri con fare altezzoso dall’alto verso il basso, per cui rimangono sempre marcate le distanze tra l’offerente e il richiedente aiuto.

A questo proposito, è bene ricordare il ruolo svolto in questi anni dalla stampa cattolica, in particolare missionaria, dando voce a chi voce non ha, raccontando, ad esempio, le guerre dimenticate, tragedie che solitamente la stampa generalista tende a ignorare, ma anche offrendo notizie e riflessioni sull’attualità di paesi africani con straordinarie potenzialità culturali e religiose. Vale, comunque, ricordare che in Italia — come anche in Francia, in Spagna, nel Regno Unito e in altri paesi — vi è un giornalismo cattolico militante che, pur avendo una matrice legittimamente confessionale, rappresenta una finestra aperta sul mondo.

D’altronde, non esiste un modo di raccontare asettico e neutrale, disincarnato rispetto alla cronaca dei fatti. A spiegarlo in maniera convincente in una sua missiva pastorale, fu un pastore d’anime eccellente, il cardinale Carlo Maria Martini, compianto arcivescovo di Milano, (Il lembo del mantello, Lettera ai fedeli per l’anno pastorale 1991/1992) il quale sosteneva che «è praticamente impossibile porsi esattamente tra fonte dell’informazione e il destinatario» perché il «mediatore è colui che porta le ragioni dell’uno e dell’altro, e viceversa. È colui che si fa carico dell’uno e dell’altro, che sa cogliere il senso del loro dire. Soprattutto, mediatore è colui che traduce; ciò vuol dire che non può essere un passacarte, né un megafono, né uno che letteralmente trasporta ogni parola da un codice all’altro. Mediatore è colui che si assume i rischi di ogni traduzione; tradurre, concretamente, significa anche andare all’essenziale, cercare il senso di una vicenda in sé e nel contesto, e riferire con parole vive».

Dunque, il mito dell’oggettività non può prescindere dalla fatica di chi, umanamente, si erge da tramite tra l’evento in quanto tale e il destinatario finale che è il fruitore di notizie. Per l’editoria missionaria, si tratta di un impegno indispensabile e dichiarato, dalla parte dei poveri, nel laborioso processo di comprensione e dialogo tra le culture.

di Giulio Albanese