MEDICUS PAPAE — IL CINQUECENTO

L’archiatra e la febbre di Benvenuto Cellini

Uno studio di Benvenuto Cellini
21 agosto 2020

Da Filippo della Valle, esperto di peste, a Matteo Corti


Di Alessandro vi Borgia fu archiatra Filippo della Valle, medico e docente nello Studio dell’Urbe, a sua volta figlio di un altro dottore, Paolo della Valle, che aveva prestato le sue cure ad Alessandro v. Filippo della Valle era anche esperto di peste ed è probabile che all’epoca di Sisto iv questo Papa si sia avvalso anche delle sue conoscenze nel prendere la decisione di abbandonare Roma dal giugno all’ottobre 1476. Bernardo Buongiovanni, anch’egli sanitario di Alessandro, fu incaricato dal Pontefice di verificare un episodio di stigmatizzazione di una monaca del convento di San Tommaso di Viterbo, ricevendone l’assicurazione «di essere la cosa più che umana» e mettendo in seguito «per iscritto la sua relazione in favore del prodigio». Poche notizie invece si hanno di altri due medici palatini, Giovanni Battista Canani seniore e Andrea Vives, uno spagnolo, che forse si trovò ad assistere Alessandro vi nella malattia che l’avrebbe portato alla morte, probabilmente una febbre malarica «contratta nella campagna di Roma e non altrimenti veleno bevuto per isbaglio», commenta l’archivista vaticano.

Ai già citati sanitari Mandosio aggiunge altri tre medici palatini: Alessandro Espinosa, Pietro Pintor e Gasper Torrella. Del secondo si sa che percepiva una paga, dovutagli in quanto archiatra, di 100 ducati l’anno e che era autore di un volume sulla cura della peste dedicata proprio a Papa Borgia. Il terzo, Gasper Torrella, a sua volta si era distinto per l’attività di ricerca, pubblicando un trattato sulla sifilide (il cosiddetto morbo gallico), che conteneva le relazioni di cinque cure fatte ad alcuni famigliari del duca Valentino, Cesare Borgia, e «ad altri per ordine dello stesso duca». Di qualche anno dopo è un altro trattato sulla sifilide dedicato al duca Valentino insieme a un’opera sulla peste, «sedente Julio ii» come recita il sottotitolo. È possibile che Torrella sia stato anche medico durante il breve pontificato di Pio III, mentre, come si è detto, sicuramente lo fu del suo successore. Papa della Rovere, ebbe, stando alle note di un cronista dell’epoca, «sempre sei o otto medici al seguito tra i primi dell’Urbe, senza che mai si riuscisse a capire la causa del suo malessere. Alcuni dissero per le diverse fantasie, altri perché la radice del male che prima l’aveva colpito fosse rimasta e ora lo affliggeva di più». Tra i medici che lo curavano c’era sicuramente, fin dall’inizio del pontificato, l’ebreo Samuele Sarfadi, con uno stipendio di trenta scudi d’oro. Di lui, «del quale Giulio ii assiduamente si servì come medico» e della triste sorte capitata al figlio Giosifonte, straordinario cultore della matematica e della filosofia, parla Pierio Valeriano nel De litteratorum infelicitate, allorché racconta che questi, avendo contratta la peste, fu scacciato dalla città e morì di fame e di sete prima che della virulenza del morbo.

Un altro medico di Giulio ii fu Lanzillotto de Lanzillotti, morto anch’egli di peste nel 1527, dopo essere stato anche a servizio di Leone x. La famiglia Lanzillotti aveva fornito al Pontefice un altro sanitario nella persona di Scipione Lanzillotti il quale aveva curato il Papa in occasione di un suo grave malanno che gli aveva tolto l’appetito facendogli mangiare, per ricominciare ad assumere cibo, diverse qualità di frutta, come pesche, noci e prugne. Importante fu anche la presenza costante tra i sanitari di Giulio ii anche di un chirurgo, tale Giovanni de Vigo, come risulta dai libri paga pontifici nel periodo che va dal 1504 al 1513.

Del successore del della Rovere, Leone x, Mandosio elenca otto archiatri tra questi due, Arcangelo Tufi e Girolamo Nisi, lo erano già stati rispettivamente di Pio III e di Giulio ii. Dei rimanenti lo stesso Leone ci dà una descrizione di Bartolomeo da Pisa, in una lettera infatti scrive che «costui aveva insegnato medicina presso lo Studio senese e che era considerato in quest’arte tra i primi».

Nel novero dei medici pontifici c’era anche Bernardino Speroni dell’università di Padova, che alla morte del Papa si trasferì a Venezia per curare il doge Leonardo Loredan. Nel pur breve pontificato di Adriano vi ci sono due figure di medici alquanto significative. La prima è quella piuttosto chiacchierata di Giovanni Antracino, del quale si diceva che avesse fatto morire il Papa e che addirittura, recatosi a visitare un certo messer Piero degli Ippoliti, invece di curarlo l’avesse accoltellato al petto. Tutte dicerie che non trovano riscontro né nei fatti né nella stima che il medico pontificio aveva tra i suoi colleghi. Per esempio il celebre medico ligure Giovanni Da Vigo gli dedicò il trattato De morbo gallico e redasse per i suoi studenti la Practica compendiosa, un manuale di medicina in cinque volumi, tanto che si era arrivati a dire che dietro molti suoi libri ci fosse la mano dell’Antracino (vedi il saggio di Simone Pandolfi, Corti al vetriolo. Veleni e medici nel rinascimento italiano, Soldiershop, 2016). Il secondo dottore di Adriano vi fu l Francesco Fusconi di Norcia, esperto di malaria, che ottenne una certa celebrità per aver cambiato la dieta di chi soffriva di questo tipo di mali, passando a un modo di alimentarsi abbondante. Ancora un altro aneddoto si racconta di Francesco Fusconi. L’episodio è narrato nella Vita dallo stesso Benvenuto Cellini. Era l’anno 1535 e l’artista era stato male «per una grandissima febbre» e furono chiamati a consulto i medici più importanti di Roma tra cui anche il norcino, che subito pensò a una terapia, aggiungendo di «chiamarlo a tutte l’ore, perché non si può immaginare quel che la natura sa fare in un giovane di questa sorte». In particolare raccomandò, nel caso fosse svenuto, di chiamarlo subito perché sarebbe arrivato «a ogni ora della notte». Quando però arrivò il momento di andare dal paziente nel cuore della notte, iniziò a urlare contro chi era andato a bussare da lui che, se il paziente era davvero morto, era assurdo pensare che «con la sua medicina, venendo a casa, gli potesse soffiare nel sedere e renderlo vivo». Malgrado questo scatto d’ira il mattino presto andò dal malato e riuscì a curarlo e a guarirlo. Era ormai vecchissimo quando nel gennaio del 1550 (che è forse anche l’anno della sua morte), nel conclave successivo alla scomparsa di Paolo III, fu chiamato a curare il cardinal Ridolfi e in quella circostanza indicò un cambiamento di alimentazione a tutti i partecipanti al conclave, consiglio che migliorò le loro condizioni di salute e portò all’elezione del nuovo Pontefice Giulio III. Per quanto riguarda Clemente VII, Francesco Berni in un sonetto ricorda ironicamente che questo Papa ebbe ben «otto medici» durante una sua malattia. Tra questi c’era sicuramente Matteo Corti, che aveva suggerito al Papa di portarsi dietro l’acqua del Tevere in un suo viaggio a Marsiglia.

di Lucio Coco