A dieci anni dall’uscita del romanzo «Freedom» di Jonathan Franzen

In balìa della libertà

Jonathan Franzen
25 agosto 2020

Compie dieci anni il quarto romanzo di Jonathan Franzen. Stiamo parlando di Freedom, pubblicato negli Stati Uniti il 31 agosto 2010 da Farrar, Straus and Giroux e proposto in Italia da Einaudi l’anno dopo con il titolo di Libertà (traduzione di Silvia Pareschi). A distanza di due lustri, l’opera che ai tempi venne accolta con perlopiù unanime, e forse un tantino esagerato, entusiasmo (il «Telegraph» parlò di «grande romanzo americano», il «New York Times Book Review» di «capolavoro» e lo stesso accigliato autore finì sulla copertina del «Time» in veste di «grande romanziere americano»), continua a risultare attuale. Del resto, il motivo della sua riproposizione ha a che fare, piuttosto che con la storia dell’anniversario, con qualcos’altro: sembra quantomeno curioso far nuovamente luce su un romanzo — successivo di nove anni a Le correzioni (Einaudi, 2002) — che parla alle nuove generazioni per la contemporanea urgenza del tema affrontato, guarda caso la libertà.

La storia dei Berglund — famiglia americana, progressista democratica, di casa in un sobborgo di St Paul, in Minnesota — ruota, infatti, attorno al concetto ambiguo di libertà, quella libertà assoluta che, sia nel privato sia nel pubblico, se non sottoposta a un minimo di critica, può diventare pericolosa.

Andiamo per gradi. Patty e Walter Berglund sono una coppia di coniugi perfetta: lei, ex campionessa di basket al college, è una casalinga iperprotettiva e presentissima nella vita del vicinato; lui, avvocato «più verde di Greenpeace», è dipendente di una grande azienda. Borghesi, benestanti, ambientalisti, ecologisti, politicamente corretti, hanno due figli, Jessica e Joey, e insieme compongono un quadretto invidiabile agli occhi di tutti gli altri. A un certo punto, però, qualcosa va storto e i conti non tornano: depressione, triangoli amorosi, corruzione e relazioni menzognere rompono l’apparente perfezione, disgregando il sogno americano in cui Patty e Walter, per primi, avevano creduto. Per di più, il figlio Joey lascia il nido familiare e va a vivere dai vicini conservatori repubblicani, mentre lo stesso Walter finisce nei guai per la sua connivenza con l’industria del carbone ai danni dei contadini (e dei gatti).

Il tutto si dipana sullo sfondo della presidenza di George W. Bush — la vicenda passa in rassegna tre generazioni, ma è principalmente ambientata negli anni Duemila, gli anni post 11 settembre 2001, gli anni in cui, proprio in nome della libertà, si legittima la guerra e le operazioni militari messe a punto dagli Stati Uniti in Afghanistan prendono il nome di Enduring Freedom.

Ed ecco che viene a galla il senso, assai provocatorio, di libertà secondo Franzen, che poi è, come si diceva, il motivo per cui il libro, nel suo decennale, risulta ancora contemporaneo. Lo scrittore di Western Springs in varie interviste, dichiarò che il titolo del libro fosse «collegato all’uso distorto della parola fatto dall’amministrazione Bush». L’autore indaga sul rapporto tra libertà e felicità, tra libertà e responsabilità. Non è detto che il singolo, totalmente libero, sia, consequenzialmente, felice. Una percezione, quest’ultima, meglio espressa da Walter: «La gente è venuta in questo paese o per il denaro o per la libertà. Se non hai denaro, ti aggrappi ancora più furiosamente alle tue libertà. Anche se il fumo ti uccide, anche se non hai i mezzi per mantenere i tuoi figli, anche se i tuoi figli vengono ammazzati da maniaci armati di fucile. Puoi essere povero, ma l’unica cosa che nessuno ti può togliere è la libertà di rovinarti la vita nel modo che preferisci».

Dunque, posto che ognuno è libero di prendere tutte le decisioni, giuste o sbagliate, che desidera — Patty, in nome della libertà, sceglie di sposare l’uomo che non ama e poi di tradirlo con il rocker Richard Katz; Walter, pur di essere libero e salvare l’indifesa dendroica cerulea (antesignana del cardellino e del nostrano colibrì), accetta di distruggere un ecosistema — la domanda che echeggia in Freedom è la seguente: quanto può essere pericoloso l’utilizzo sconsiderato della libertà? E poi: che prezzo potrebbero pagare i propri cari, gli altri, la comunità affinché il singolo si conceda il diritto a una libertà senza limiti? La libertà è un diritto che si fonda sulla sopraffazione dell’altro? Oggi, soprattutto, di cosa parliamo, quando parliamo di libertà?

Le riflessioni che, su tale aspetto, Freedom suscitò una volta pubblicato (a prescindere dai fiumi di parole sull’episodio dei ladri che rubarono gli occhiali da vista a Franzen durante una presentazione in Inghilterra, sul birdwatching, sul caso Oprah Winfrey o su Obama che lesse il libro in anteprima a Martha’s Vineyard) risultano anche adatte per il periodo che stiamoi vivendo, nel corso dell’ anno “ventiventi” della pandemia da coronavirus. Periodo in cui, si sa, è consigliato (in certi casi prescritto) tenere degli specifici comportamenti per il bene comune — dal distanziamento fisico alle mascherine da indossare — per non ledere la propria salute e quella degli altri. Tuttavia le cronache locali e nazionali, in tutto il mondo, raccontano puntualmente di assembramenti, violazione delle regole, preoccupazioni che derivano dalla continua e mancata osservanza di certe raccomandazioni. Ritorna attuale, per questo, Jonathan Franzen, o meglio, per questo, ritornano attuali le sue parole sui pericoli intrinseci della libertà illimitata.

«Usa bene la tua libertà» è la frase che Patty legge su un muro mentre passeggia nel college della figlia Jessica. Perché, in fin dei conti, non usarla bene, la libertà, potrebbe equivalere a cancellare quella degli altri e dopo anche la propria (si è detto anche prima di Franzen che «la mia libertà finisce dove inizia quella dell’altro»). Come i coniugi Berglund, ci si trova, pertanto, in balìa della libertà, prigionieri dell’egoismo, che è amplificato in modo direttamente proporzionale ai giorni di isolamento precedentemente vissuti. È più giusto sacrificare la vita di alcuni — magari i più fragili — o garantire le libertà di altri?

Non solo in Freedom prende piede questo concetto, relativo ai rischi della libertà smodata: in una intervista al «New Yorker», nel 2001, Franzen citò la concezione del verso libero secondo il poeta statunitense Robert Frost. «Ciò che mi ha sempre colpito dell’osservazione di Robert Frost sul verso libero — che è come il tennis senza rete — è che giocare a tennis senza rete è difficile, frustrante e sostanzialmente non divertente — spiega lo scrittore — Io l’ho provato. Non è divertente. Il vincolo è nostro amico».

In definitiva, da Freedom — per la cui stesura il suo autore in Più lontano ancora (Einaudi, 2012) racconta di aver trovato «nuovi alleati in Stendhal, Tolstoj e Alice Munro» — si comprende che essere legati a qualcosa è, paradossalmente, la via che conduce alla libertà, che rinunciare a un pezzo di libertà per il bene di se stessi e degli altri è più liberatorio di quanto si possa credere. Probabilmente è in questa chiave che, dopo dieci anni — in particolare dopo Purity (Einaudi, 2016) e la pubblicazione di diversi saggi —, Freedom andrebbe letto. Nel 2010 ci ha detto come viviamo, nel 2020 potrebbe indicarci come vivere.

di Enrica Riera