A cent’anni dalla prima edizione italiana de «Le notti bianche» di Dostoevskij

Il sogno si spegne all’alba

Una veduta di Pietroburgo la città in cui è ambientata l’opera dello scrittore russo
20 agosto 2020

Anche se lo stesso Dostoevskij, avendovi trascorso gli anni della giovinezza, è arrivato a definirla «la città  più astratta e premeditata di tutto il globo terrestre», non si può negare che San Pietroburgo sia affascinante, e come non mai durante l’estate, grazie al noto fenomeno naturale delle cosiddette “notti bianche”, spettacolo la cui bellezza vi si può apprezzare in modo mirabile proprio quando il sole, in vena di generosità, regala la sua luce a oltranza, protraendosi nella sua luminosità fino alle ore serali e rendendone interminabile il crepuscolo. E non solo in quella città, la sola metropoli al mondo in cui un simile fenomeno è visibile, ma in tutto il territorio situato sulla linea ideale del 60º parallelo nord, che in estate diventa fiabesco, immerso nella variabilità dei colori  e nell’incanto dell’atmosfera che si viene a creare.

Questa particolare luce notturna, che rende magica e oltremodo suggestiva la città e i dintorni, è stata scelta come sfondo per uno dei primi ispirati racconti giovanili di Fedor Dostoevskij, Le notti bianche per l’appunto, forse una delle opere più liriche della letteratura russa, di cui cento anni fa veniva data alle stampe in Italia la prima edizione (Le notti bianche: romanzo sentimentale, traduzione riveduta dallo scrittore russo Ossip Felyne, Roma: Casa Editrice M. Carra e C., di L. Bellini, 1920), pubblicata in lingua originale su una rivista in patria più di settant’anni prima, nel 1848, con il sottotitolo Dalle memorie di un sognatore, poco prima della deportazione dell’autore in Siberia, accusato di affiliazione a una società segreta sovversiva. Il racconto è entrato da subito nel cuore dei lettori per i temi universali affrontati, come l’amore, l’intrinseca brama di felicità, la ricerca dell’altro, il bisogno irrefrenabile del confronto e dell’ascolto.

Stregato anche da questa enigmatica atmosfera il protagonista e narratore, un giovane scrittore introverso e sognatore, vive in un mondo di fantasie, alla ricerca di un senso alla vita, in pratica di un’esistenza ideale, ma lo fa in modo piuttosto inerte e per giunta staccato dalla società e dalla realtà, che per lui non ha alcun significato, mentre girovaga come un fantasma, senza una meta precisa sotto la luce soffusa e inebriante della notte, lungo le romantiche rive dei canali della Neva e per le viuzze adiacenti alla maestosa Prospettiva Nevskij dell’allora Pietroburgo, fondata e resa splendente dallo zar Pietro il Grande.

Durante una delle sue passeggiate serali, perso nei propri pensieri, assorto e malinconico, conosce una fanciulla misteriosa e timida, ma piena di nobili sentimenti, Nasten’ka, della quale si innamora perdutamente. «Era una notte meravigliosa, una di quelle notti che forse possono esistere solo quando si è giovani» recitano le prime righe del racconto, e «veniva da chiedersi se sotto un cielo del genere potessero vivere uomini stizziti e bizzosi». Tutto a un tratto, la sua vita sembra prodigiosamente destinata a un cambiamento radicale, alla conoscenza dell’amore, gli pare arrivato il momento di sperimentare in prima persona cosa vuol dire essere veramente amati.

I due personaggi hanno soltanto quattro appuntamenti notturni, da lui visti come l’opportunità di manifestare l’ardore da tempo soffocato nel petto, ma fin da subito la fanciulla gli fa capire di non essere pronta che per l’amicizia, visto che è in attesa del suo amato, di ritorno dopo una lunga assenza. Nonostante la sua buona indole, il giovane percepisce che, alla deriva della solitudine, senza amici, gli manca l’emozione reale, alla quale aveva imparato a preferire unicamente i sentimenti immaginari. L’immaturità sentimentale che lo affligge rappresenta un ostacolo apparentemente insormontabile. Ma non si lascia scoraggiare. E sente che l’innamoramento, contro cui non esiste alcun rimedio, ha il potere di fare svanire anche il più bel sogno. Sa che la fantasia non dispone delle armi per competere con la vita vera. Così la passione si fa avanti prepotentemente, riempiendo di nuova linfa le sue vene, i suoi pensieri, il suo stesso respiro, sostituendosi al grigiore dell’abbandono in cui da tempo si trova costretto a vivere.

La ragazza invece, una persona fragile e tormentata, si sente dimenticata dal mondo e trascorre le sue giornate nella noia e nell’indecisione sul da farsi. Vive una vita modesta con la nonna cieca e iperprotettiva, che per controllare i suoi movimenti arriva ad agganciare i propri vestiti ai suoi con una spilla. Ma ad alimentarla c’è la speranza concreta di ritrovare l’amore perduto.

I lunghi dialoghi tra le due anime solitarie e i fervidi monologhi del narratore fungono da filo conduttore per questa breve storia, in verità scarna di avvenimenti salienti, fatta solo di sentimenti. L’incontro fortuito porta il ragazzo, prigioniero di paure irrazionali, a rendersi conto che fuori dalla propria interiorità esiste un mondo che vale la pena di essere vissuto. Ma dai sogni ad occhi aperti ai rimpianti il passo è breve. Rimpianti per l’amicizia appena nata che non sboccerà mai in amore, quindi destinata a dissolversi nel nulla, per l’illusione e la fugacità del tempo, per l’idea di scivolare di nuovo nella penombra della solitudine, per gli anni sprecati a vagheggiare mentre la vita gli passa davanti agli occhi.

Nonostante gli abbia aperto il cuore, la fanciulla non si lascia incantare dalle lusinghe del giovane sognatore e trova il coraggio di intraprendere la propria strada, che la condurrà tra le braccia del suo amato. Si fida della propria ragione, anche se non è semplice dire addio all’amico, al quale rimane comunque legata, ma solo mediante un sentimento platonico. Sa che dopo la frivolezza dell’estate, specie in un posto dove «il sole è un ospite così raro», l’autunno arriverà al galoppo. Spontaneamente, gli viene da chiedersi: chi si accontenterebbe dell’amicizia, se non aspirasse anche all’amore?

In questa storia non si cerca di demonizzare “l’arte di sognare”. Anzi, chi di noi può dire di non aver mai sognato? Il sogno è l’affascinante esperienza di una forma di realtà che riguarda tutti, una dinamica che non conosce confini e accomuna ogni latitudine, specialmente nel mondo dei giovani, che nella loro frenetica ricerca della verità si lasciano trascinare più volentieri dalla effervescenza delle proprie emozioni. Magari si vuole invece mettere in guardia dal rischio concreto di sovrapporre la fantasia alla realtà, di anteporre una caricatura dell’esistenza alla vita stessa.

Introspettivo, sentimentale ma anche giocoso, il racconto non solo ha anticipato per certi versi il più complesso e articolato romanzo Umiliati e offesi, in cui le miserie umane vengono descritte con aspro realismo, ma ha aiutato a risvegliare la coscienza del diritto alla felicità di tutti gli esseri umani, anche del sognatore più svagato, perso nella sua alienazione, un fenomeno presente in ogni epoca. Ma nell’intreccio dei sentimenti, a un certo punto della vita, tutti sono chiamati a fare il salto di qualità nella ricerca del confronto con l’altro, abbandonando l’angusto guscio della propria intimità, dell’ostinata proiezione del proprio ego, per riuscire ad apprezzare la bellezza di ciò che è autentico, e non solo per provare la consolazione di aver vissuto «un intero attimo di beatitudine». Infatti, forse per essere veramente felici ci vorrebbe dell’altro.

di Sergio Suchodolak