Cento anni fa la battaglia che bloccò l’avanzata dell’Armata rossa in Polonia

Il miracolo della Vistola

Militari polacchi difendono una posizione nei pressi di Janki (agosto 1920)
17 agosto 2020

La battaglia di Varsavia del 16 agosto 1920 rappresenta un evento cruciale nella storia del Novecento, eppure non ha ricevuto adeguata attenzione da parte degli storici e, per molti europei occidentali, è un evento completamente sconosciuto. Altri, per superficialità, la liquidano come un episodio dell’eterno antagonismo tra russi e polacchi. Ma c’è di più, perché nel 1920 era in gioco l’avanzata della rivoluzione bolscevica in Europa.

«Cavalchiamo la cavalla della storia», cantava nel 1918 ne La marcia di sinistra il poeta della rivoluzione Vladimir Majakovskij. La liberazione del proletariato in Occidente, per i bolscevichi, passava dalla Polonia. «Vicino a Varsavia non c’è il centro del governo borghese polacco e della repubblica del capitale, ma il centro di tutto il moderno sistema imperialista», affermò Lenin, nella convinzione che caduta Varsavia si poteva «scuotere questo sistema (…) in Germania e in Inghilterra». Il piano di Lenin invece fallì e, grazie alle legioni di Pilsudski, l’Europa occidentale poté beneficiare di alcuni anni di pace e sicurezza prima di una nuova e più cruenta deflagrazione. Mentre toccò a Stalin, nel 1945, far avanzare la rivoluzione nel cuore dell’Europa.

Alla guerra polacco-bolscevica è dedicato un volume di Adam Zamoyski, storico americano di origini polacche esperto di storia militare, che ricostruisce come in un romanzo appassionante lo scontro, non solo sul campo di battaglia, tra la Polonia rinata di Pilsudski e la Russia bolscevica di Lenin. Il libro, intitolato in inglese Warsaw 1920. Lenin’s failed Conquest of Europe, è stato pubblicato in Italia da Corbaccio nella collana «I giorni che hanno cambiato la storia» con una premessa di Sergio Romano.

Testimone d’eccezione di quello che uno dei protagonisti, il generale Haller, definì il «miracolo della Vistola» fu il nunzio apostolico in Polonia, Achille Ratti, futuro Pio XI, tra i pochissimi diplomatici a non abbandonare la capitale polacca davanti all’avanzata dell’Armata rossa. La memoria di quegli eventi straordinari gli rimase talmente impressa, che da Papa volle che la cappella del palazzo apostolico di Castel Gandolfo venisse affrescata con dipinti sul miracolo della Vistola. Ma a seguire la resistenza e la controffensiva dei polacchi vi erano anche Curzio Malaparte, addetto culturale presso l’ambasciata d’Italia, un giovane Charles de Gaulle, inviato da Parigi come consigliere militare, e il diplomatico britannico Edgar Vincent D’Abernon, che paragonò la battaglia di Varsavia a quella di Poitiers, includendola in un catalogo delle 18 battaglie decisive per la storia del mondo.

Alla testa delle truppe polacche c’era il maresciallo Pilsudski in persona, coadiuvato da alcuni giovani combattenti polacchi, pronti a tutto pur di difendere la riconquistata indipendenza della Polonia dopo oltre un secolo di spartizioni: Wladyslaw Sikorski, Tadeusz Komorowski, Wladyslaw Anders, Kazimierz Sosnkowski. Tutti loro parteciparono alla seconda guerra mondiale ed ebbero a soffrire personalmente la loro partecipazione alla sonora sconfitta patita dall’Armata rossa.

Le tracce della battaglia di Varsavia sono indelebili nella coscienza dei polacchi, a cominciare dal primate Wyszyński, testimone del saccheggio di Wloclawek da parte dell’Armata rossa, quando era seminarista. Ma anche Giovanni Paolo II, nato pochi mesi prima dell’agosto 1920, accostava il miracolo della Vistola alla resistenza di Jasna Góra che, nel 1655, aveva posto fine al «diluvio svedese», alla vittoria sugli ottomani alle porte di Vienna nel 1683 e, infine, alla rivoluzione pacifica del 1989 possibile grazie a «un intervento divino», come altre epopee della nazione polacca. (Udienza generale, 21 febbraio 1990).

La Polonia è un teatro decisivo della storia del Novecento e, tra l’agosto del 1920 a Varsavia e quello del 1980 a Danzica, si consuma la parabola del comunismo in Europa.

di Massimiliano Signifredi