Sulla tragedia in Alta Val di Grana

Il dolore innocente

Henri Matisse, «Polinesia: il cielo» (1946, particolare)
17 agosto 2020

In simili occasioni, bisogna sforzarsi di prendere carta e penna o di posare, come in questo caso, le dita sui tasti del computer. È troppo forte la tentazione d’arrendersi, anche con la parola, dinanzi ad un dolore e ad una mortificazione difficilmente pensabili più laceranti per un genitore, un figlio, una sorella, un fratello, un amico. Ciò che è accaduto martedì notte, in alta Valle Grana, in provincia di Cuneo, gela in profondità le nostre anime, e con esse, ogni mediocre prova di riflessione.

Una Land Rover Defender, sulla quale viaggiavano nove ragazzi con l’innocente proposito di «guardare le stelle», è precipitata per oltre cento metri in una scarpata molto ripida, dalla strada che conduce verso le grange Tibert, a 1.800 metri di quota, sopra il santuario di San Magno. Marco Appendino, 24 anni (alla guida), Samuele Gribaudo, 14, i due fratelli Nicolò ed Elia Martini, di 17 e 14 anni, Camilla Bessone di 16, hanno perso la vita. Sono rimaste ferite in maniera non grave Chiara Tomatis ed Anna Gribaudo, entrambe di 17 anni. Marco Mogna, 24, e Danilo Gribaudo, 17 anni, sono stati invece trasportati in ospedale e tuttora lottano per la vita, con nostra grande apprensione.

Questa triste circostanza ci fa venire in mente il vangelo di Luca (15, 8-10), laddove racconta di una donna disperata della scomparsa di una dramma, moneta del valore di una giornata di lavoro, grossomodo. Quella donna vive in un paesino piccolo, come Castelmagno, dov’è accaduta la tragedia. Ed anche le case sono piccole, spesso di una sola stanza, addossate le une alle altre. I tetti fabbricati di sterpi, paglia e fango. I muri di pietra nera vulcanica. I pavimenti sconnessi e pieni di crepe. In una di queste, è caduta la dramma, ma la donna non lo sa, ed è disposta a mettere a soqquadro l’intera casa pur di ritrovarla. Accende la lucerna, spazza bene ogni angolo e si mette a cercarla attentamente. A questa donna somigliamo anche noi, poveri viandanti, affamati di senso, in questi giorni, e non solo in questi. Dinanzi al dolore umano, e alle domande che esso provoca, e all’inadeguatezza del pensiero, persino le spalle forti della Chiesa si scoprono fragili come scapole d’uccello.

In quale “crepa” dell’esistenza sono cadute le cinque preziose vite di questi ragazzi? Lo sforzo di cercarle è il compito di riflessione che la Chiesa ha e a cui non può sottrarsi, in nessuna occasione. La scienza, cui oggi è affidata giustamente gran parte delle domande, non conoscendo le categorie di fine e di senso, può permettersi di non rispondere. La Chiesa no, la Chiesa deve provare, ed anche se non riesce, deve tentare, ininterrottamente. È il suo compito inderogabile, la sua missione nella storia. Eppure umilmente ammette di non aver ancora trovato e d’essere ancora immersa nell’agitazione della ricerca. Quello che per le famiglie di questi ragazzi è una terribile disgrazia, per la Chiesa è anche un dramma teologico. Il dolore innocente, nodo inestricabile della spiritualità d’ogni tempo, non ci dà pace.

Soltanto la fede dei semplici si dimostra libera da questi tormenti. Così come, a volte, soltanto i bambini, con le loro piccole dita, riescono a sciogliere i nodi più ingarbugliati, gli animi semplici riescono ad intuire le cose grandi meglio di noi. Forse per questo, Gesù diceva che solo la fede innocente dei piccoli è in grado di comprendere i grandi misteri del suo regno (Matteo 1-18), che rimangono indecifrabili anche per gli intelletti più sapienti.

Un musicista e compositore cristiano, Bepi De Marzo, ha vissuto una tragedia molto simile a quella dei cari di questi ragazzi. Dopo aver perso un amico in montagna, si è messo a scrivere un canto d’ispirazione popolare, ormai tradotto in moltissime lingue, Signore delle cime. Il testo è così semplice e, insieme, così sublime. Non pretende risposte, non contesta Dio, non impreca contro la malvagità della natura o della sorte, non si lancia in avventurose indagini. Solleva gli occhi verso l’alto, con puerile grazia, e dice: «Dio del cielo, Signore delle cime, un nostro amico hai chiesto alla montagna, ma ti preghiamo, ma ti preghiamo, su nel Paradiso, su nel Paradiso, lascialo andare per le tue montagne».

Che non sia quest’umile fiducia il solo modo per sopportare il mistero della vita e della morte? Anche a questa domanda non sappiamo dare risposte definitive, ma crediamo di sì.

La Chiesa, però, ha anche un altro dovere: quello di fare, quando non riesce a dire. Anzi di fare, prima di dire qualsiasi cosa. La sintesi forse più incisiva della nostra fede, non viene da un trattato di teologia o di filosofia. Viene dalla pietra modellata da un artista: nel portale settentrionale della cattedrale di Chartres c’è una statua di Dio Padre nell’atto di creare Adamo. Il Padre è riprodotto con lo stesso volto dato a Cristo nelle statue attigue, ma, con un geniale colpo di teologia, anche Adamo ha lo stesso volto di Cristo, benché più giovane e sbarbato. Il volto del Padre, del Cristo e dell’uomo è lo stesso: questo è il cristianesimo. Una fede basata sulla prossimità tra Dio e Uomo. La condivisione della gioia e del dolore di cui è intessuta l’esistenza. Bernardo di Chiaravalle scrisse che Dio non può patire, ma può compatire la sofferenza umana e la forca di legno, simbolo della fede cristiana, ne è l’esempio. Dunque, cosa fare, prima ancora di dire? Ce lo suggerisce Giovanni, il discepolo amato. Nell’ascoltare la notizia sofferta dell’imminente morte di Gesù, e del tradimento che la determinerà, con umiltà e prima di dire qualsiasi cosa, appoggia la testa sul petto del maestro (Giovanni 13, 25).

Seguendo il suo esempio, con profondo rispetto, la Chiesa Universale poggia la testa sul cuore straziato di chi oggi soffre la scomparsa di questi cinque ragazzi e sul cuore di chi è in ansia per Danilo e Marco. Sappiate che una enorme famiglia sta dinanzi al focolare, in umile preghiera e con la fede «dottissima» dei bambini.

di Roberto Rosano