A tre anni dalla fuga dal Myanmar

Futuro incerto per i rohingya

Rohingya trasportano acqua nel campo di Jamtoli in Bangladesh (Afp)
25 agosto 2020

Il 25 agosto di tre anni fa, più di 700.000 musulmani dell’etnia rohingya fuggivano dallo Stato del Rakhine, in Myanmar, a causa delle violenze dei militari governativi, per raggiungere gli oltre 200.000 rifugiati in Bangladesh, scappati durante le precedenti ondate di brutalità.

E ancora oggi, denunciano le organizzazioni umanitarie, le speranze di un ritorno a casa in sicurezza per circa un milione di persone — rifugiate a Cox's Bazar, in Bangladesh — sono davvero poche, con le condizioni di vita nel campo profughi di Kutupalong, il più grande al mondo, che restano difficili. Si vive in rifugi sovraffollati, costruiti con plastica, lamiere e bambù, e l’accesso ai servizi di base è scarso, a volte inesistente. E ogni anno, quando arriva la stagione dei monsoni, il rischio di inondazioni, smottamenti e di perdere i pochi beni in possesso è sempre più alto. Gli operatori umanitari stanno riscontrando un numero crescente di persone con problemi di salute, anche mentale. Inoltre, la maggior parte dei profughi, sia bambini che adulti, presenta infezioni respiratorie e malattie della pelle, patologie per lo più legate alle pessime condizioni igieniche. A tutto questo si sono aggiunte le sfide poste dal covid-19, che ha acuito la vulnerabilità dei rohingya. E la mancanza di uno status legale — in Myanmar non hanno la cittadinanza — e l’assenza di soluzioni a lungo termine rende il futuro del rohingya più incerto che mai.