Ripensare a metodologie alternative a partire dal continente

Emergenza educativa in Africa in tempo di covid-19

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18 agosto 2020

Il covid-19 ha messo in ginocchio il sistema scolastico africano, un po’ a tutti i livelli: dalla scuola primaria all’università. A causa della chiusura delle attività didattiche imposta dall’applicazione delle misure governative di contrasto alla diffusione del coronavirus, secondo le previsioni della organizzazione non governativa Save the children, si stima che 262,5 milioni di bambini della scuola materna e secondaria — ossia circa il 21,5 per cento della popolazione totale africana — non siano attualmente in grado di frequentare la scuola e molti tra gli studenti sono a rischio di non poterci più tornare, in particolare le ragazze.

Sempre secondo la stessa fonte, 9 dei 12 Paesi in cui il rischio di incremento di abbandono scolastico è estremamente elevato, sono africani: Niger, Mali, Ciad, Liberia, Guinea, Mauritania, Nigeria, Senegal e Costa d’Avorio. La crisi economica determinata sia dalla speculazione finanziaria come anche dal crollo degli scambi commerciali, la scarsità di liquidità nel pubblico e nel privato, unitamente all’assenza di un welfare che protegga i ceti meno abbienti, sono tra le principali cause dell’impasse in cui il continente si trova. Da rilevare che, dopo i primi tentativi di riapertura delle scuole nelle scorse settimane, molti governi africani sono stati costretti o a posticipare a tempo indeterminato le lezioni, come nel caso del Senegal o a programmare il ritorno sui banchi da gennaio del prossimo anno, come ad esempio ha stabilito il governo keniano.

Dal punto di vista sanitario, è bene ricordare che in Africa la pandemia procede, in generale, a ritmi moderati. Sebbene abbia superato la soglia del milione di contagi, sono stati registrati poco più di 25 mila decessi. Al momento sono stati effettuati circa 9 milioni di tamponi (di cui un terzo corrisponde solo al Sud Africa) per una popolazione totale a livello continentale di oltre 1,3 miliardi di abitanti. Un numero di test, ritenuto comunque insufficiente a fornire una risposta adeguata alla diffusione del coronavirus secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Anche se poi non è chiaro come mai le infezioni in Africa risultino essere meno gravi rispetto ad altre parti del mondo; una riflessione questa che può essere estesa anche in riferimento al numero di decessi avvenuti in questi mesi (circa 25 mila), anch’esso limitato se confrontato con altre aree geografiche del pianeta.

Sta di fatto che la resilienza delle popolazioni africane non è comunque riuscita a scongiurare il quasi generale blocco del sistema scolastico continentale. Purtroppo l’inadeguatezza di molte scuole con accesso limitato all’acqua corrente e in molti casi la totale mancanza di dispositivi e attrezzature per contrastare la diffusione del virus tra gli studenti (mascherine, sapone, detergente) ha indotto i governi locali ad imporre la sospensione delle lezioni. Queste chiusure stanno penalizzando gli studenti per quanto concerne le attività di e-learning. La Banca mondiale registra una media del 22 per cento di utenti telematici nell’Africa subsahariana, rispetto al 55 per cento in Nord Africa e Medio Oriente, per una media globale del 49 per cento (contro l’81 per cento in Europa e il 77 per cento in Nord America). Per quanto concerne la popolazione scolastica, l’Unesco ritiene che l’area maggiormente penalizzata sia quella subsahariana dove l’89 per cento degli studenti non ha accesso ai computer di casa e l’82 per cento non dispone di un collegamento personale alla rete. Secondo il responsabile Unicef per l’Istruzione, Robert Jenkins, «l’accesso alle tecnologie e ai materiali necessari per continuare ad apprendere mentre le scuole sono chiuse è ampiamente diseguale» e l’Africa, da questo punto di vista rappresenta il fanalino di coda in confronto ad altri continenti. In considerazione di questo scenario, il direttore generale dell’Unesco, Audrey Azoulay, ha osservato che «il perseguimento dell’insegnamento e dell’apprendimento non può essere limitato ai soli mezzi online», auspicando l’utilizzo di tecnologie alternative, in particolare l’uso delle trasmissioni radiofoniche e televisive, per garantire alcuni margini di apprendimento, anche per quelle aree maggiormente disagiate. Alcuni tentativi, a questo riguardo, stanno già avvenendo in paesi come il Senegal, la Costa d’Avorio, il Burkina Faso e il Niger anche perché la posta in gioco è alta, soprattutto guardando al futuro delle giovani generazioni.

Occorre comunque rilevare che prima del covid-19 si era radicata un po’ ovunque in Africa una delle più brillanti convinzioni formulate dal compianto presidente sudafricano Nelson Mandela: «L’educazione è l’arma più potente che puoi usare per cambiare il mondo». Sagge parole che peraltro hanno trovato in questi anni — è il caso di riconoscerlo — un felice riscontro nell’impegno e nella determinazione del mondo missionario, promuovendo il diritto allo studio delle giovani generazioni africane attraverso numerose opere educative (dalle primarie alle secondarie, dagli istituti di arti e mestieri alle università).

Naturalmente la sfida educativa per l’Africa, prescindendo dall’attuale pandemia, è molto complessa e meriterebbe un’attenta disamina. Infatti, questo tema non può essere valutato solo in riferimento alla crescita delle iscrizioni avvenuta in questi anni, sia nelle scuole primarie e secondarie come anche nelle università, ma anche e soprattutto riflettendo sul binomio “scuola-lavoro”. Già alcuni anni fa, nel 2016, l’autorevole settimanale britannico «The Economist», rilevò un vero e proprio paradosso africano: «Più tempo passi a scuola, meno possibilità hai di trovare un lavoro». In effetti è stato dimostrato che i tassi di disoccupazione, in non pochi Paesi africani, aumentano con l’innalzamento del livello di istruzione. Le ragioni sono molteplici. In primo luogo, in Africa è diffusa l’occupazione informale, vale a dire che molte persone lavorano al di fuori dell’economia ufficiale ed è più probabile che un laureato senza lavoro risulti “disoccupato” rispetto a chi lascia la scuola primaria senza avere un’occupazione. In secondo luogo, i laureati sono molto esigenti riguardo ai posti di lavoro, in attesa di occupazioni consone al loro indirizzo di studio (che tradizionalmente nell’Africa post-coloniale del secolo scorso erano lavori nel pubblico impiego). Viene spontaneo domandarsi, guardando al futuro, a quello cioè che viene comunemente definito post-covid, quale indirizzo imprimere per rilanciare la sfida educativa in Africa.

Una provocazione interessante viene da uno studioso senegalese, Felwine Sarr, economista, scrittore e musicista che propone l’affermazione di un’antropologia a partire dalla riscoperta del patrimonio culturale africano. «Pensare un progetto di civiltà che metta l’uomo al centro delle sue preoccupazioni proponendo un maggiore equilibrio tra ordini diversi: quello economico, quello culturale e quello spirituale, articolando un rapporto diverso tra il soggetto e l’oggetto». Si tratta di un vero e proprio decentramento narrativo per cui la vera sfida sarà quella di lasciare che l’Africa sia pensata a partire dall’Africa, attraverso la valorizzazione della sua identità culturale, andando al di là delle categorie occidentali. Un impegno che certamente vedrà in prima fila il vasto areopago della cooperazione missionaria tra le Chiese e il mondo della Cooperazione allo sviluppo.

di Giulio Albanese