La strage di Jonestown nell’ultimo libro di Alessandro Perissinotto

Elizabeth la sopravvissuta

Un particolare della copertina del libro «La congregazione» di Alessandro Perissinotto
10 agosto 2020

Se Quentin Tarantino nel suo ultimo film (Once Upon a Time in… Hollywood, 2019), che fa riferimento al massacro di Cielo Drive del 1969 per mano dei membri della “famiglia Manson”, riscrive la Storia e inverte il corso degli eventi, Alessandro Perissinotto ne La congregazione (Milano, Mondadori, 2020, pagine 252, euro 19), la Storia, la lascia così com’è. E sempre al contrario del regista statunitense, lo scrittore torinese — autore, tra gli altri, di Semina il vento (Piemme, 2011), Le colpe dei padri (Piemme, 2013) e Il silenzio della collina (Mondadori, 2019) — incentra il suo romanzo su un incubo di fine anni Settanta, che rievoca, sì, la vicenda legata a Charles Manson, ma risulta «ancora più crudele»: la strage di Jonestown, il più grosso suicidio di massa della modernità, che interessò, nel paese sudamericano della Guyana, più di novecento persone aderenti alla setta religiosa (People’s Temple Agricultural Project) del predicatore dell’Indiana Jim Jones.

Attorno al tragico evento del 18 novembre 1978, Perissinotto costruisce, pertanto, una storia avvincente in grado di far luce su fatti di cronaca nerissima, nonché capace di offrire — grazie a una protagonista di pura invenzione e agli altri personaggi — i ritmi del thriller tout court. Con La congregazione il lettore coglie, del resto, segnali di pericolo, scioglie giochi della mente, avverte tensione e suspense e, al contempo, non può non riflettere su temi spinosi, tra cui, gli effetti distorti derivanti da una errata percezione della religione, il fanatismo, il potere psicologico di influenzare e manipolare il comportamento altrui, le conseguenze causate da disturbi post-traumatici in soggetti fragili e la nevrosi sociale, frutto della paura di possibili catastrofi (Jones, ad esempio, era ossessionato dal pericolo di una eventuale guerra nucleare). È la storia, dunque, che incontra la Storia e dalla Guyana fa tappa sulle Rocky Mountains, spostandosi da una comunità all’altra.

Il romanzo trova, infatti, ambientazione ai giorni nostri, a tre mila metri di quota, nel paesino di Frisco, in Colorado, dove — dimenticata l’immaginaria Holt di Kent Haruf dalle caldi estati e le romantiche verande sui portici con le limonate e i tè freddi abitualmente sorseggiati — c’è un’atmosfera spettrale e fredda, calata su motel, stazioni di servizio, pub, supermarket, negozi di sci, pick-up da cui risuonano le melodie di John Denver e sulla manciata di chalet in cui gli abitanti delle montagne rocciose trascorrono indisturbati la loro vita («In novembre era triste come un cimitero abbandonato»).

È qui che la bella, ironica ed ex spogliarellista, con la cavigliera elettronica e «un padiglione auricolare che si raggrinza verso il basso», Elizabeth Doran si trasferisce per scontare la pena, dovuta alla guida in stato di ebbrezza, inflittagli dal giudice. Ed è sempre a Frisco che, dopo quarant’anni dall’eccidio del Tempio del Popolo, a cui la donna da bambina era riuscita a scampare diversamente dai genitori, il passato si ripresenta. Cosa nasconde Elizabeth? Chi le dà la caccia? Chi sono i buoni e chi sono i cattivi nella sua storia? Cosa c’è dietro la strage di Jonestown? Riuscirà Ely finalmente a costruirsi una nuova vita?

In uno schema di continui rimandi e flashback (la trama si dipana su tre piani temporali: l’adesso, le settimane subito precedenti e il passato, appunto, di quarant’anni prima), sono questi gli interrogativi a cui, man mano, chi legge cerca di rispondere. Tra le pagine appassionanti e appassionate, che tengono letteralmente inchiodati alle righe, quella che si tratteggia risulta, insomma, una vera e propria partita a scacchi, la lotta tra la vita e la morte, intervallata da investigazioni, intrighi, messaggi crittografati, false piste, battute laconiche e taglienti e «una scia di sangue che sembrava non finire, che forse si sarebbe allungata fino a lì, fino al pacifico, imbiancato, natalizio paese di Frisco».

Ecco che a pieno titolo potrebbe diventare un film questo romanzo diviso tra verità apparenti e verità autentiche, tra fiction e rigoroso resoconto storico. Ha tutte le carte in regola per esserlo: il paese delle Rocky Moutains (ed evidentemente l’autore tradotto in numerosi paesi del mondo, docente di Teorie e tecniche delle scritture all’università di Torino e visiting professor presso la Denver University, lo conosce bene) ha una straordinaria potenza cinematografica; vale lo stesso per l’affresco di personaggi che ruota intorno a Elizabeth, antieroina ed «elemento deviante» per eccellenza, il quale rappresenta verosimilmente il microcosmo conservatore e tradizionalista che, nell’America rurale, lontana dalla frenesia delle metropoli, esiste ed è esistito e che, con le sue dinamiche e i suoi linguaggi, portò un gran numero di persone ad aderire al folle progetto di Jim Jones. E poi, a fortiori, è lo stesso narratore a suggerire la somiglianza di uno dei corteggiatori di Elizabeth (la storia d’amore prende forma, ma in modo del tutto inaspettato) con Alec Baldwin, mentre lo sceriffo della zona sembra uscire direttamente dalla filmografia dei fratelli Coen.

Detto ciò, tramite le paure che paralizzano Elizabeth, testimone della terribile carneficina e degli abusi fisici e psichici perpetrati dagli adepti della congregazione, il romanzo, al pari di alcune precedenti opere dell’autore (tra queste il poliziesco Treno 8017, Sellerio, 2003 o Il silenzio della collina, già citato) che pure prendono spunto da fatti realmente accaduti, concede la possibilità di scavare nella memoria e recuperare dall’oblio una vicenda da non dimenticare («Sui diecimila ettari della tenuta, i fedeli hanno lavorato undici ore al giorno, sei giorni alla settimana, sotto la supervisione di guardie armate […]. Infine, l’abuso fisico faceva parte dei riti ordinari del culto. Gli stessi bambini, spesso presi in ostaggio per assicurare l’obbedienza dei genitori, erano vittime di mortificazioni, o addirittura di atti di sadismo, destinati ad ancorare in loro il sentimento di assoluta fedeltà al leader»).

L’incipit lo dimostra: «Nel buio del suo nascondiglio, Elizabeth sente che la vita sta lentamente gocciolando via da lei (…). Si dice che, in fondo, le sono stati regalati quarant’anni di vita, che avrebbe già dovuto morire nel 1978 (…). Tra poco loro arriveranno». Non ha scampo Elizabeth, chiamata a presentarsi dinanzi al suo secondo appuntamento con la morte, e neanche il lettore, davanti al quale fa capolinea tutta la sfrontatezza della Storia.

di Enrica Riera