«Un povero bianco» di Sherwood Anderson

Ecologista prima dell’ecologismo

Edward Hopper, «Ryder’s House» (1933)
19 agosto 2020

È stato uno dei romanzi più amati da Cesare Pavese, elogiato da Emilio Cecchi, preso a modello da Ernest Hemingway, considerato come maestro da William Faulkner, eppure Un povero bianco di Sherwood Anderson oggi lo si trova solo nelle biblioteche o sugli scaffali degli appassionati di letteratura americana. Pubblicato nel 1920 in America e nel 1947 in Italia da Einaudi, il romanzo è uno di quei casi letterari che raccontano con tale minuzia la propria epoca, da essere divorati dalle generazioni contemporanee, per poi cadere nell’oblìo per le successive.

Sherwood Anderson è a tutti gli effetti un figlio della sua epoca, assurto a fama internazionale con una raccolta di racconti, Winesburg, Ohio, del 1919 (l’edizione italiana più recente, che mantiene lo stesso titolo, è Einaudi 2011, con prefazione di Vinicio Capossela). La sua epoca è quella della transizione da un mondo rurale a un mondo industrializzato, un passaggio che negli Stati Uniti d’America fu sentito in modo molto profondo e in qualche modo lacerante.

I suoi famosi racconti, così come Un povero bianco, sono imperniati su figure umane comuni di piccole o medie città dove il trambusto e la trasgressione delle metropoli sono lontane, nel vero senso della parola, mille miglia. La New York che negli stessi anni stava raccontando Fitzgerald, per esempio, sembrerebbe un universo alieno. La sua è la poesia dell’umile, del verace, del puro. Una purezza agricola che si nutriva del linguaggio muto della natura: in Un povero bianco non c’è capitolo che non faccia un paragone tra gli esseri umani e l’ambiente circostante, gli alberi, le rocce, i fiumi, gli animali. Similitudini ricorrenti, che raccontano di uomini forti come rocce, di voci simili al canto degli uccelli, di donne dai capelli come fronde e via dicendo in un universo che registra gli ultimi istanti della sua armonia prima della corruzione del moderno. Anche solo per questa attenzione all’ambiente Anderson meriterebbe di essere riscoperto dalle nuove generazioni ecologiste.

Ugualmente osteggiato e osannato da diversi versanti della critica a lui contemporanea, provò vari generi letterari, tra cui anche l’autobiografia, il giornalismo, fino a gioielli oggi dimenticati come Hometown, un libro-documentario del 1940, dedicato al Texas e corredato dalle immagini di grandi fotografi dell’epoca. Il filo rosso che collega tutti gli scritti di Anderson è proprio un senso di appartenenza alla terra, alla natura, termine nel quale rientra a pieno diritto la natura umana, sia essa fisica che psicologica, e il suo indissolubile legame all’ambiente. Così come la natura incontaminata dell’Ottocento veniva “invasa” dal mostro rumoroso della locomotiva e della ferrovia transcontinentale (topos riconoscibile della letteratura americana), similmente il pacifico e soddisfatto mondo dei primi del Novecento viene fagocitato dall’avvento delle fabbriche, dell’industria, della meccanizzazione e del dollaro.

Hugh McVey, il protagonista del romanzo, inizia come un Huckleberry Finn riveduto e corretto, svogliato e assonnato sulle sponde del Mississippi, senza madre e con un padre alcolizzato. Viene preso a ben volere da una coppia che arriva nella sua cittadina per prendere in gestione la nuova stazione ferroviaria, ma ben presto quella connessione ferrata col resto del mondo non resta uno strumento solo simbolico, e Hugh decide di trasferirsi, di visitare il mondo – che, in realtà, sarà uno stato limitrofo, dove si fermerà nella sonnolenta cittadina di Bidwell, in Ohio. Sonnolenta (come era stato lui) fino al suo arrivo, poiché questo solitario e misterioso addetto al telegrafo susciterà un curioso e frenetico interesse in tutta la comunità.

Se il suo lavoro è una chiara metafora della necessità di comunicazione interpersonale, la natura di Hugh non gli permette praticamente mai di aprirsi agli altri. Il titolo del romanzo potrebbe benissimo essere stato “un povero solo”, tanto viene ribadita la sua incapacità di mettersi in relazione con gli altri esseri umani, nonostante quello della comunione e della conoscenza dell’altro sembri essere il suo pensiero costante. Saranno, quindi, gli altri, a tentare di mettersi in connessione con lui, in particolare uno spregiudicato ricco investitore che decide di finanziare un progetto di Hugh per costruire e brevettare un macchinario per piantare cavoli. Hugh era stato colpito e fin quasi traumatizzato dalla visione della fatica dei contadini che si prostravano sulla terra per coltivarla a cavoli e aveva passato giorni e notti ad architettare una soluzione meccanizzata. L’investimento azzardato e disonesto, sembra dire Anderson, è destinato a fallire, mentre Hugh, nel momento in cui procede con le proprie gambe, riesce nel suo intento di inventore con un altro progetto, pur sempre proiettato verso quel processo di industrializzazione che, teoricamente, stava corrompendo — o anche solo contaminando — lo spirito idealistico di un’America in via di sparizione. E così Hugh, da “povero bianco” diventa ricco, ma i dollari non cambieranno la sua natura schiva, né il suo carattere fondamentalmente incompreso e pensieroso. Nemmeno il tanto agognato rapporto con l’altro sesso, che sfocia in un matrimonio con la viziata e ricchissima Clara riuscirà a scardinare il suo isolamento.

Anderson ci porta per mano nelle continue elucubrazioni del protagonista, nonché nei pensieri di chi gli sta intorno. Questo realismo psicologico, che non a caso piacque al nostro Pavese, è uno degli elementi che ha provocato la disattenzione dei lettori moderni nei confronti di questo romanzo. Quando la letteratura americana diventava più politicizzata o più provocatoria, Un povero bianco appariva come il noioso ritratto di un ingenuo mondo felicemente lasciato alle spalle. Eppure, la sua narrativa ha fatto storia. E anche un grande “trasgressivo” della letteratura americana lo ha riconosciuto come maestro di stile. Nelle parole di Charles Bukowski, infatti, Anderson «è stato il più bravo a giocare con le parole, usandole come fossero pietre. O pezzi di roba da mangiare».

di Alessandro Clericuzio