Dove l’infinito e il finito si incontrano

Bernadette, la mistica francese proclamata santa da Pio XI nel 1933
13 agosto 2020

«L’angelo, la mosca e l’anima», l’ultimo libro di Ferruccio Parazzoli


«I nostri collegamenti mentali giungono spesso a unirsi molto in ritardo, alcune volte non arrivano mai, si perdono come treni su binari morti, altre volte s’incrociano all’improvviso, conflagrano in un boato».

Breve ed essenziale, è un lungo diario tra il 1994 e il 2020 L’angelo, la mosca e l’anima (Milano, Paoline 2020, pagine 98, euro 13), l’ultimo libro dello scrittore e saggista Ferruccio Parazzoli. Un racconto autobiografico che intreccia ricordi e percorsi, persone e luoghi; un racconto lieve, ma in grado di racchiudere in sé immutabili domande di senso, attraverso cui Parazzoli ripercorre alcune tappe della sua vita come fossero tappe di un viaggio interiore, riscoprendo esperienze rimaste sepolte nella memoria e facendole dialogare. Il risultato è il poetico alternarsi tra giorni dell’adolescenza, altri giorni trascorsi a Lourdes e giorni passati con le sue «Tre niñe»: Bernadette, Teresina e la piccola peruviana.

Il diario è l’approdo pacificante del senso unitario che unisce passato, presente e futuro, tra finito e infinito, tra terreno e ultraterreno. Un invito sintetizzato dal titolo del libro che riecheggia la famosa frase di Meister Eckhart: «Perciò preghiamo Dio di diventare liberi da Dio, e di concepire e godere eternamente la verità là dove l’angelo e la mosca e l’anima sono uguali: là dove stavo e volevo quello che ero, ed ero quel che volevo».

I lontani giorni dell’adolescenza, innanzitutto, rivissuti in un dialogo virtuale con i suoi allegri maestri. Don Ennio e don Attilio, due preti qualunque — magari un po’ sudati, un po’ avvizziti, ma capaci di trasmettere una sapienza semplice e immediata. Don Ennio, il professore di matematica delle medie, che lo invita a non prendere tutto così sul serio, a non mettere sempre la mente al primo posto, a pregare anche con il corpo; don Attilio, l’economo, «un vecchietto vispo, loquace e dinamico, con gli occhi che gli brillavano nella faccia spremuta come una mela vizza».

Scende dal treno e torna alla sua vecchia scuola, l’alunno ormai adulto. Delle persone non c’è più nessuno, ma ci sono i luoghi, le cose, la natura. «Mentre passeggiavo nel cortile dell’Istituto dove ero stato a scuola da ragazzo (…) avevo familiarità soltanto con le vecchie costruzioni in parte fatiscenti, in parte ridipinte, e con qualche vecchio albero che ancora sorgeva ai margini del cortile deserto. Quel pino, per esempio. Mi ero nascosto dietro il suo tronco un’infinità di volte». Spazi e luoghi da nutrire con i ricordi; da rivivere con gli affetti e gli insegnamenti.

Poi le passeggiate per Lourdes, vissuta non tanto come meta, ma come luogo. Occhi aperti, polmoni pieni, obiettività e fede nella consapevolezza del mistero — «Mi viene il sospetto, quasi la certezza, che la maggior parte di quanto avviene a Lourdes noi non la vediamo, non la vedremo mai, neppure nei giorni delle grandi piene di maggio».

Ogni angolo di Lourdes è soprattutto un tassello nella storia di Bernadette, e dei suoi quattordici anni. «Guardando questi greti, questi prati, questi quercioli spogli, mi viene addosso una grande tenerezza per quella bambina. Mi sembra di camminare in silenzio, accanto a lei, nello stesso giorno e momento, provo lo stesso suo freddo, la stessa umidità che penetra nelle ossa, le sue ossa di bambina tubercolotica, quando andò per raccogliere un po’ di legna e vide Aquerò, “quella cosa” che sconvolse la sua breve vita».

In queste tappe del viaggio interiore di Parazzoli un posto prezioso è quello occupato dal suo «angelito indio», «la niña», bambina peruviana gettatasi dal settimo piano. Uscendo di casa, lo scrittore passa sotto quel muro, mette i piedi sul selciato contro il quale la piccola ha posto fine ai suoi pochi anni per motivi rimasti sconosciuti («forse aveva avuto soltanto troppa paura. O forse no»).

Giorno dopo giorno la piccola niña comincia a tenergli compagnia, ad andare a trovarlo nei momenti più impensati della giornata, anche lontano da quel muro. «Non si è mai fatta vedere la Niña, nemmeno in sogno: è solo presente nella mia memoria, ogni mattina e ogni sera, e la memoria di lei, tornando così, due volte al giorno, mi è divenuta tanto familiare, tanto indispensabile, che credo di sapere con certezza come la Niña abbia lasciato da tempo quell’angolo di muro e abbia preso ad accompagnarmi con discrezione, india silenziosa e invisibile, angelito indio, o angelo custode supplementare».

È un accompagnamento nel silenzio, fatto di silenzio, nutrito di silenzio. «La mia Niña non mi parlava. Dicevano, anzi, di lei, che neppure nei brevi anni della sua vita avesse mai parlato molto, qualche piccola frase nel dialetto del paese andino dove era nata e da dove l’avevano portata via». La Niña era il silenzio «e rimase il silenzio. Era dunque questo quanto la Nina voleva insegnarmi: la sottile verità del silenzio contro la grossolana volontà di convinzione della parola. Non solo della parola, ma di ogni immagine nata dalla limitata fantasia umana per esprimere quella verità che non è mai stata capace di esprimere».

Ricordi, memorie, esperienze. Tutto ci rende ciò che siamo.  L’angelo, la mosca e l'anima  è però soprattutto il dialogo, lieve ma consapevole, del bambino che Parazzoli è stato e dell’adulto che è diventato. In quel dialogo tra lo ieri e l’oggi che dà senso a tante cose, tra la vitalità della giovinezza e la consapevolezza della maturità. «Lui è morto e io non sono un ragazzo, ma lassù, sulla cima di quel monte dove corre il vento e da dove si vedono le vallate con i paesi schiacciati e sperduti come greggi di pecore, lui è giovane e vivo e io sono il ragazzino di allora, anche se intendo e ragiono con la mia testa di adulto».

Non è un episodio: è il passato che torna, ed è molto più della semplice somma di tanti singoli ricordi. È un canto che si srotola non sottoforma di rimpianto o di rammarico, ma come ricordo che culla, e custodisce. «Bevo a una delle venti fontanelle sul lato sinistro della Grotta [di Lourdes]. (…) Penso confusamente che sto lavando il bambino che sono stato, l’uomo adulto che è qui presente, il vecchio che forse sarò».

di Silvia Gusmano