Il 4 agosto di duecento anni fa nasceva il critico letterario e gastronomo Pellegrino Artusi

Da Ugo Foscolo alla ricetta per il babà

La copertina del libro (1891) che all’epoca ebbe un travolgente successo e che fu tradotto in numerose lingue
01 agosto 2020

Fosse stato per il padre, il quale voleva che facesse il commerciante, sarebbe rimasto nell’”ignoranza”, sprovvisto di quella istruzione che avrebbe poi acquisito nel tempo con ferrea volontà.

Il 4 agosto di duecento anni fa nasceva Pellegrino Artusi, critico letterario nonché eccellente gastronomo, tanto che al suo nome si lega un libro di ricette che all’epoca conobbe uno grande successo: La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Nativo di Forlimpopoli, nell’allora Stato Pontificio, crebbe in una famiglia numerosa (dodici fratelli): fu chiamato Pellegrino in onore del santo forlivese Pellegrino Loziosi. Come racconta nell’Autobiografia, fu un autodidatta perché il padre, appunto, non riteneva necessario che seguisse un corso regolari di studi.

In un passo dell’opera si legge: «Quando poi, fatto adulto, ho riflettuto a questo consiglio non mi parve dato da gente savia perché un fondo d’istruzione ben data in qualunque caso è sempre giovevole».

La sua vita fu segnata da un fatto che vide come infelice protagonista l’allora noto brigante Stefano Pelloni, detto “il Passatore”. Era il 25 gennaio 1851 quando il brigante assaltò Forlimpopoli con l’intento di rapinare le famiglie più ricche del paese. Quella sera i più benestanti erano a teatro per assistere al dramma La morte di Sisara. Catturati i gendarmi papalini che presidiavano Forlimpopoli, la banda dei briganti penetrò nel teatro ordinando a tutti i presenti di consegnare i preziosi. Pelloni costrinse poi un amico degli Artusi, che non si trovavano a teatro, a farsi aprire la porta della loro abitazione. Entrati in casa, malmenarono Pellegrino, fecero razzia di ogni cosa e, infine, usarono violenza a sua sorella, Gertrude, la quale, sconvolta da quella esperienza, dovette essere ricoverata al manicomio di Pesaro, dove poi morì.

In seguito a questa raccapricciante vicenda, la famiglia Artusi decise di abbandonare quelle terre infestate dai briganti e di trasferirsi a Firenze, capitale del Granducato di Toscana.

Furono tre le principali opere di Artusi, tutte pubblicate a spese proprie. I saggi Vita di Ugo Foscolo e Osservazioni in appendice a trenta lettere di Giuseppe Giusti e il libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, che, dopo un’accoglienza tiepida, conquistò una vasta e travolgente popolarità. «Ugo Foscolo — scrive Artusi nel saggio — sia pe la spiccata individualità, sia per l’originalità degli scritti e dello spirito che li informa, è nome che suona caro alle orecchie degli italiani».

Il Carme dei Sepolcri viene definito un’opera «forte e splendida», che «rifulge di giovanile bellezza». Al contempo rileva che «la novità e la profondità dei concetti, la concisione della frase, l’elevatezza della forma ne rendono spesso difficile l’intelligenza». Al riguardo, aggiunge: «Ho tentato di agevolare questa lettura con le mie modeste note». Coinvolgente e arguta è la prosa di Artusi, che per catturare l’attenzione del lettore attinge a quel patrimonio sempre vivo, e inesauribile, dell’aneddotica. «Cresciuto adulto — scrive — stava spesso taciturno più ore, ma se avviava a discorrere, la foga lo trasportava oltre i limiti della discretezza di che poi si doleva. Così nel dettare, dotato com’era di fervida immaginazione e di tenacissima memoria, la penna scorreva, velocemente per lunghe ore a deporre sulla carta i pensieri come gli si affollavano alla mente; ma poi restringeva con molta cura e diligenza il copiosissimo scritto per dargli ordine e per estrarne l’essenza perché “quel precetto”, dic’egli, “di scrivere come se Omero e Platone dovessero leggere, mi fa spesso stracciare i miei scartafacci che forse i librai comprerebbe volentieri”. Per equal modo — sottolineava Artusi — nella corrispondenza epistolare o non scriveva agli amici, o se il faceva buttava giù di sovente fin sette od otto facciate di scritto che, per la mano poco felice, egli chiamava arabico o a geroglifici».

Nel saggio su Giuseppe Giusti, Artusi ne metteva in evidenza lo stile delle composizioni, caratterizzato da un umorismo pungente, ma mai irriverente, e striato da una malinconia, sottile e penetrante. Tra i destinatari delle lettere figurano Alessandro Manzoni, Piero Guicciardini e il marchese Gino Capponi.

Considerata la prima trattazione gastronomica dell’Italia unita, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene rappresenta un’opera di particolare pregio anzitutto perché ha contribuito alla diffusione della lingua italiana sul territorio nazionale. Come si legge in un catalogo curato dall’Accademia della Crusca in occasione di una mostra dal titolo Pellegrino Artusi. Il tempo e le opere, il testo è scritto «in una lingua fluida, elegante ed armoniosa». Quindi si evidenzia che il libro è divenuto familiare a generazioni di italiani e soprattutto di italiane: un libro che è diventato nel tempo «una presenza preziosa ed amica, nonché uno straordinario esempio di opera dinamica e aperta”.

Il libro racconta la cucina nazionale raccogliendo le tante tradizioni locali, ricomposte in un variegato e articolato mosaico. Da oltre cent’anni esso viene ininterrottamente editato: è stato tradotto in numerose lingue, tra le quali l’inglese, il francese, il portoghese, il russo e il giapponese. Nella prefazione Artusi scrive: «La cucina è bricconcella; spesso e volentieri fa disperare, ma dà anche piacere, perché quelle volte che riuscite o che avete superato una difficoltà, provate compiacimento e cantate vittoria». Poi tiene a precisare: «Non vorrei che per essermi occupato di culinaria mi gabellaste per un ghiottone o per un gran pappatore; protesto, perché non sono né l’una né l’altra cosa. Amo il bello e il buono ovunque si trovino e mi ripugna di vedere straziata, come suol dirsi, la grazia di Dio».

Nell’opera l’autore sciorina una miriade di consigli al lettore, stabilendo un nesso indissolubile tra l’arte del mangiare e la salute dell’organismo. Ciò che colpisce in particolare è l’attualità di certe raccomandazioni. «Fra la colazione e il pranzo lasciate correre un intervallo di sette ore, che tante occorrono per una completa digestione»; «Il gelato non nuoce alla fine del pranzo, anzi giova, perché richiama al ventricolo il calore opportuno a ben digerire». Nell’esortare poi a riposarsi dopo pranzo e a fare una passeggiata, anche breve, dopo cena, richiama un’antica massima latina: Post prandium stabis e post cenam ambulabis.

Quanto mai interessanti, e gustose, sono poi le ricette da lui confezionate. Vengono ammanniti suggerimenti e indicazioni per preparare ad arte i tortellini alla bolognese, i cappelletti all’uso di Romagna, i taglierini di semolino, gli gnocchi. Artusi sfoggia una competenza in materia davvero disarmante. Si dimostra altresì molto ferrato sui vari tipi di minestra: quella di bamboline di farina e di mattoncini di ricotta, quella di nocciuole di semolino e di mille fanti. Non poteva certo mancare la lista dei dolci che contempla, tra l’altro, la torta alla marengo, la torta con i pioli, la torta mantovana. Spicca quindi la ricetta, redatta in modo meticolosissimo, per fare il babà: ben tredici ingredienti, scelti con la massima cura, sono indispensabili per «dare alla luce il miglior babà», dolce — scrive argutamente Artusi — che «vuol vedere la persona in viso, cioè per riuscir bene richiede pazienza e attenzione».

di Gabriele Nicolò