LABORATORIO - DOPO LA PANDEMIA
Dal Regno Unito uno sguardo cristiano alle persone affette da demenza

Con la lente dell’amore

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27 agosto 2020

Pubblichiamo una nostra traduzione dell’articolo del vescovo ordinario militare di Gran Bretagna, responsabile della salute e dell’assistenza sociale in seno alla Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles, uscito il 19 agosto sul settimanale cattolico britannico «The Tablet».

Il marito della signora Barbara Windsor, Scott Mitchell, ha recentemente parlato del dolore che ha provato nel lasciare la moglie, malata di Alzheimer, in una casa di cura a causa del peggioramento delle sue condizioni. Alla Bbc ha detto: «Mi sento su un ottovolante emotivo. Vado in giro cercando di tenermi occupato, poi scoppio in lacrime. Sembra un lutto». Questa sensazione di lutto si è accentuata durante la pandemia di covid-19 per migliaia di persone che hanno partner, familiari e amici con demenza che vivono in case di cura. Man mano che le restrizioni si sono attenuate, i membri più vulnerabili della società hanno potuto riguadagnare alcuni dei legami umani fondamentali che sembravano così lontani al culmine del blocco. Se siamo un paese seriamente intenzionato a prevenire una crisi nell’ambito della salute mentale all’indomani del covid-19, ora è il momento di iniziare a parlare onestamente e apertamente del settore dell’assistenza e di come trattiamo i pazienti con demenza. Non possono essere lasciati indietro.

Come cattolici il nostro punto di partenza è che siamo tutti ugualmente fatti a immagine di Dio. Il valore umano non è una misura della nostra capacità mentale o fisica, della nostra funzione sociale, della nostra età, della nostra salute o di qualsiasi altra valutazione qualitativa. Dio ha creato ciascuno di noi e così facendo ha dato a tutti noi uguale dignità e valore. È l’amore di Dio e l’amore di coloro che ci circondano che assicurano che tale dignità non vada perduta in alcun momento, specialmente durante la malattia e la morte. Le persone che soffrono di demenza sono tra le più vulnerabili nella nostra società e meritano tutto l’amore e le cure che possiamo offrire. C’è il rischio che le loro esigenze di assistenza possano essere trascurate. Una ridotta capacità di comprendere nuove situazioni o di ricordare può sembrare incoerente con la grande profondità di sentimenti che le persone con demenza possono conservare per tutta la loro malattia. Tuttavia è stato dimostrato che, quando qualcuno convive con la demenza, interazioni umane significative possono incidere fortemente riguardo al tasso di progressione di questa malattia.

Secondo Julia Jones e Nicci Gerrard, della «John’s Campaign» (campagna per l’estensione dei diritti di visita per i familiari assistenti di pazienti con demenza negli ospedali del Regno Unito, fondata il 30 novembre 2014 dagli scrittori Nicci Gerrard e Julia Jones, ndr), oltre il 70 per cento delle 440.000 persone che vivono in case di cura soffre di demenza e la maggior parte è in età avanzata. Mentre la durata media di una degenza in strutture residenziali si avvicina a due anni e mezzo, nell’assistenza infermieristica la media è di tredici mesi. Avere perso cinque mesi di tempo così prezioso è estremamente doloroso, soprattutto quando non c’è una solida speranza di riprendere i contatti, almeno fino a quando la persona amata non sta morendo e sarà consentita una visita.

Non si può negare l’impegno che il personale delle case di cura ha dimostrato ai propri ospiti. Molti assistenti sono diventati ospiti loro stessi, con alcuni che hanno lasciato la propria famiglia per settimane o addirittura mesi, per prendersi cura di quelli che erano loro affidati. Riconosciamo che si tratta di grandi sacrifici, per i quali ringrazio ogni singolo membro del personale nelle case di cura. Continuiamo a pregare per le anime di coloro che, coi loro gesti altruistici, hanno tragicamente perso la vita a causa del covid-19. Sebbene il personale delle case di cura si sia assunto tanto lavoro in più negli ultimi cinque mesi, non possiamo aspettarci che sia in grado di ricoprire ogni ruolo nella cura di un paziente. Gli impegni stretti e intensi non concedono a molti assistenti il tempo di sedersi a lungo con un malato, di parlare o leggere con lui, di tenergli la mano. Questa era la tipica assistenza fornita da parenti amorevoli, spesso quotidianamente. Se i familiari non possono visitare i loro cari nelle case di cura per periodi prolungati, rischiamo di accelerare l’aggravamento e, nel peggiore dei casi, la morte di persone che avrebbero potuto avere mesi di cure significative e amorevoli fino alla fine naturale della loro vita.

Methodist Homes for the Aged (il più grande fornitore di servizi caritatevoli nel Regno Unito, ndr) è stato fra i primi a riconoscerlo negli ultimi tempi e ha formulato una nuova politica, More Than Just a Visitor, che mira a implementare tali considerazioni. La politica definisce un assistente familiare essenziale come «un parente o un amico di un paziente la cui cura è un elemento fondamentale per il mantenimento della sua salute mentale o fisica. Senza questo input è probabile che un malato subisca un’afflizione significativa o costante». Riconoscere che la cura dei parenti non può essere sostituita dimostra che l’amore è una parte decisiva della cura. Il Compendio della dottrina sociale della Chiesa spiega che «per rendere la società più umana, più degna della persona, occorre rivalutare l’amore nella vita sociale — a livello politico, economico, culturale — facendone la norma costante e suprema dell’agire» (582).

Il governo, le autorità locali e il settore dell’assistenza riconoscono che c’è un sottile equilibrio da raggiungere tra la protezione delle vite vulnerabili da un lato e il mantenimento di un senso di dignità e di scopo per coloro che vivono con una malattia a lungo termine come la demenza. Forse ora è il momento di chiederci se questa linea di equilibrio è al punto giusto. Un maggiore incoraggiamento per le case di cura a seguire l’esempio di Methodist Homes for the Aged e facilitare le visite familiari, per esempio, sarebbe un primo passo verso un atteggiamento più amorevole nei confronti delle persone con demenza. Durante il lockdown, i rischi di una possibile crisi di salute mentale globale sono stati citati dall’Organizzazione mondiale della sanità, da importanti enti di beneficenza per la salute mentale e da altre organizzazioni. Jones e Gerrard osservano: «Il distacco dall’amore del parente di riferimento è effettivamente un distacco dal sé interiore». Questa profonda verità si applica sia agli ospiti delle case di cura sia ai loro parenti all’esterno. La salute e il benessere mentale di una persona con demenza è fondamentale per la sua esperienza di vita con questa malattia.

Il dottor Donald Macaskill, ceo di Scottish Care, ha scritto di esperienze di persone affette da demenza in case di cura che muoiono di crepacuore a causa della mancanza di contatto con i propri cari. L’amore che forma i legami in una relazione va nei due sensi e la continua separazione delle persone dai loro familiari nelle case di cura non è in sintonia con la nostra attenzione nazionale e globale al miglioramento della salute mentale. Veniamo meno al nostro dovere fondamentale di amore e cura quando iniziamo a trattare i malati e i morenti come se potessero essere scartati o valessero meno di coloro che sono sani. C’è un confine tra la legittima tutela degli altri da un lato e, dall’altro, ciò che in primo luogo è il fine dell’essere vivi. Col passare del tempo, quella linea include inevitabilmente più di questo secondo aspetto. Quando la scelta è tra morire di una malattia degenerativa a lungo termine o di crepacuore, dobbiamo guardare a coloro che vivono con la demenza nelle case di cura attraverso la lente dell’amore.

di Paul James Mason