Il coraggio di «abitare il confine» nel pensiero di Lev Šestov

Come quando si gioca a mosca cieca

Luigi Caflisch, «Angeli» (2014, particolare)
28 agosto 2020

«Può esservi forse qualcosa in comune fra Atene e Gerusalemme?» si chiedeva Tertulliano. Un quesito caro anche al pensatore russo Lev Šestov, a cui Edi Natali ha dedicato un ampio saggio, Il capriccio di Dio. Una ragione in bilico tra Atene e Gerusalemme (Assisi, 2017). Natali fa parte del Consilium mulierum, il primo consiglio ecclesiastico di donne voluto dal vescovo Fausto Tardelli per la diocesi di Pistoia, ed insegna nella locale scuola di formazione teologica diocesana.

La città in cui nasce, nel 1866, è Kiev, in Ucraina, punto di incontro tra la cultura orientale e occidentale. Due anime che convivono nella biografia e nel pensiero di Lev Šestov, un abitante non del centro, ma dei confini della vita, dove la luce della ragione e l’oscurità della follia, le ragioni della filosofia e l’inspiegabile, ineffabile mistero della vita si scontrano. L’uomo di confine non ha dove aggrapparsi, deve errare a tastoni, come i bambini quando giocano a mosca cieca, poiché sa che con i “giudizi chiari e distinti” si uccide la vita, la si viviseziona; quando infatti si crede di averne catturata la complessità, essa fugge altrove e ogni volta che la si costringe in un punto, ritenuto il centro, ci accorgiamo che, poco dopo, è un po’ più in là.

Da Šestov non riceviamo trattati filosofici, ma solo l’indicazione di una rotta, che ci porta ad elaborare una nuova concezione di ragione capace di dire la complessità dell’uomo senza costringerla in schemi riduttivi e semplificatori.

Questa prospettiva di confine è quella che meglio descrive la sua figura. Per comprendere meglio il filosofo è importante ricordare un racconto a cui fa riferimento in occasione del centenario della nascita di Dostoevskij e attraverso il quale si comprende meglio quale fosse la sua sensibilità e con quale sguardo osservasse la realtà.

Ecco il racconto: l’angelo della morte è ricoperto di occhi. Talvolta, questo angelo si avvicina all’uomo troppo presto, così che lo sfiora soltanto e poi se ne va; ma in questo sfiorare lascia uno dei suoi infiniti occhi, grazie al quale quell’uomo «comincia a vedere oltre ciò che vedono gli altri uomini», acquisendo così una seconda vista che non si cura più di «salvaguardare l’accordo e l’armonia», ma diviene intelligenza, diviene quell’intus legere che permette di leggere in profondità la realtà. Ed è con questo sguardo che Šestov guarda la vita. La sua visione la possiamo rintracciare nel testo Atene e Gerusalemme, vero e proprio condensato della filosofia dell’autore. In quella “e” tra Atene e Gerusalemme c’è la volontà di non opporre ma stabilire una tensione tra la filosofia di Atene e la fede-rivelazione di Gerusalemme. Tensione che è necessario conservare, affinché la ragione non abbia uno sguardo incurvato su di sé e pretenda di possedere la verità. E la fede non divenga intimistico sentimento o adesione non ragionata, perdendo così il suo carattere di dono potente, capace dell’impossibile.

Šestov denuncia la pretesa tracotante di certa filosofia e scienza che si ritengono detentrici della verità, dell’unica visione possibile della realtà, non riconoscendo di essere soltanto uno dei possibili punti di vista. Poiché la filosofia, anche quando si sforza di considerare le cose sub specie aeternitatis, è comunque e sempre una filosofia sub specie temporis. La pretesa di possedere la verità è pretesa violenta, mentre, per il nostro autore, la filosofia «è un’arte che tende ad aprirsi un varco attraverso il logico concatenarsi dei sillogismi e spinge l’uomo in mare aperto nel mare sconfinato dell’immaginazione, del fantastico, dove tutto è ugualmente possibile ed impossibile» (Apoteosi della precarietà).

Dunque, obiettivo primario dell’opera è mettere alla prova le pretese di possesso della verità da parte di questo tipo di filosofia che egli sintetizza nel termine “Atene”, contrapponendole il diritto dell’uomo di pensare attraverso “categorie nelle quali vive”, cioè il diritto di una ragione incarnata, meno preoccupata della coerenza logico-matematica e più occupata ad aprirsi alle varie forme di linguaggio. Persino al linguaggio umano del grido e del lamento, della risata e del miracolo. Così la vita appare in tutto il suo essere enigmatica, misteriosa e non risolvibile, ma anche come realtà epifanica di bellezza, di Altro.

Quindi Šestov, seguendo un filone filosofico che scorre attraverso Pascal, Kierkegaard e Dostoevskij, lotta contro la “ragione” di Atene che decide e giudica del possibile e dell’impossibile e che cerca sempre un ordine ed una giustificazione nel reale, per dare invece spazio al mistero e al sottosuolo dell’uomo e sottrarre la ragione al dominio del 2+2=4. La strada si apre così al “capriccio” di Dio; termine, questo, che può creare turbamento ma che in realtà Šestov pone a garanzia della libertà assoluta del Creatore.

Libertà contro cui si infrange ogni necessità o sistema di conoscenza sicura e rassicurante, che pretenda di metter fine ad ogni possibile ricerca. Ma il pensiero del nostro autore è così preso dal salvaguardare l’onnipotenza di Dio, del “tutto è possibile a Dio”, da non accorgersi che il suo argomentare, portato alle estreme conseguenze, può condurre alla negazione della libertà dell’uomo e della storia. Può la storia essere nientificata? Allora quale libertà ha l’uomo? Quale il valore degli atti da essa prodotti?

Tenendo conto che Šestov era un pensatore ebreo, e pur lasciando in disparte l’evento dell’incarnazione, l’annullamento della storia non è concepibile: il Dio dell’Antico Testamento è, infatti, un Dio che fin dalle origini si sporca le mani con la storia, costruendola nonostante e proprio attraverso l’uomo, certo non rendendola uguale a zero.

L’intento della filosofia di Šestov è quindi “distruggere” quei sistemi di pensiero che pretendono di essere via alla verità e verità essi stessi. Forte, infatti, in lui è la pars destruens, giocata principalmente contro il sistema hegeliano, dalla cui demolizione emerge, per contro, una filosofia della tragedia e dello sradicamento, in grado di mostrare un maggior rispetto per la vita e per i limiti del pensare.

In una società che sovente erge muri ma che non tollera limiti, quello di Šestov è un pensiero che invece si fa forte del limite quale punto di partenza per dialogare, quale base rispettosa per un reale confronto, perché questa filosofia non teme la bruttezza, l’infelicità, la fragilità. E neppure il male. Sulle orme di Dostoevskij, Šestov rinuncia, infatti, ad ogni teodicea e ad ogni visione edulcorata del male, in qualunque forma esso si dia (ontologico, metafisico, fisico, morale), in cui questo viene privato del suo spessore e della sua forza e diviene sbiadito e privo del suo carattere tragico, mentre il ruolo della ragione è ridotto a “tranquillante”, a calmante che spegne dubbi e inquietudini.

Ma Šestov sa bene che è impossibile espellere male e sofferenza; per questo opta per l’accoglienza incondizionata, che non cerca ragioni. Accoglienza di cui è maestro lo stesso Cristo, che non è infatti venuto a fornire una spiegazione del male, ma ad assumerlo, a prenderlo su di sé, attraverso la morte in croce

Solo l’amore è, dunque, capace di opporsi e rispondere a questo “male” ingiustificato e ingiustificabile, poiché come dice lo staretz Zosima ne I Fratelli Karamazov, “con l’amore tutto si riscatta, tutto si salva».

di Edi Natali