Storie di conversione alla «filosofia della solidarietà» nell’ultimo romanzo di Dario Buzzolan

Aspettando la fine dell’eclissi

Un particolare della copertina del libro «In verità» di Dario Buzzolan
07 agosto 2020

Lette avidamente le più di cinquecento pagine di In verità di Dario Buzzolan, propongo all’autore, a caldo, una formula sintetica: è un romanzo di conversione. La sintonia è perfetta, mi dice Buzzolan, «io stesso l’avrei definito un romanzo di redenzione».

Nell’itinerario di cambiamento decisivi sono gli incontri; dilatano il palpito del cuore o lo relegano in una zona morta, di una vita non vita. La redenzione non è mai definitiva e il finale si presta a immaginare altre vicende dei protagonisti di un romanzo definito «corale» dalla critica sui più autorevoli quotidiani nazionali.

Conversione e redenzione laiche, illuminate da quella delicata filosofia della solidarietà presente in Buzzolan fin dall’esordio del 1999, Dall’altra parte degli occhi, vincitore del Premio Calvino. In questi vent’anni lo scrittore torinese, romano di adozione, ha collezionato nove romanzi, pubblicati con diversi editori, da Mursia a Baldini & Castoldi, da Fandango a Manni e ora approda con In verità, meritatamente, all’ammiraglia dell’editoria nazionale, la Mondadori (Milano, pagine 462, euro 20), conquistando, scrive giustamente Mirella Serri il 28 marzo scorso su «La Stampa-Tuttolibri», «un posto unico nel panorama narrativo italiano».

A metà del cammino, nel 2009, entra nella cinquina dello Strega con I nostri occhi sporchi di terra, una conferma di come il tema del guardare, della visibilità dell’invisibile, qui con un preciso sfondo storico in flashback nella guerra partigiana, sia il suo archetipo stilistico. Intensi e molto ben riusciti anche gli ultimi due romanzi in ordine cronologico Malapianta (Baldini&Castoldi, 2016) e La vita degna (Manni, 2018) dove il percorso del protagonista Leonardo Bolina si snoda tra due opposte visioni della vita: il suicidio come coscienza del non senso dell’esistenza oppure la capacità di saper cogliere le occasioni di creaturalità che si presentano in modo imprevisto, diverse dagli obiettivi in precedenza fissati.

La vita degna è veramente far coincidere i nostri desideri con il loro conseguimento? Non sarà proprio nella deviazione, nell’imprevisto che acquistiamo coscienza del nostro destino? Domande che riecheggiano, sotto traccia nel romanzo del 2020. Cento anni prima di In verità, nel 1919, esce Con gli occhi chiusi di Federigo Tozzi.

Come in Svevo, come in Moravia, i valori economici divenuti centrali nella società del passaggio del secolo e con i quali deve scontrarsi il giovane protagonista, Pietro, vengono emblematicamente, rozzamente, violentemente esibiti nella prima scena, dove il padre padrone Domenico Rosi conta i soldi ricavati nella serata dell’osteria e guarda laidamente una serva.

Lo scontro con il figlio sarà durissimo, come la vaga e tenera velleità utopica di Pietro che dovrà aprire gli occhi di fronte ad una realtà, incarnata da Ghisola, la ragazza amata e idealizzata, decisamente diversa da come l’aveva immaginata. La crescita economica, la globalizzazione hanno lievitato le cifre, consumate fino quasi al collasso le risorse del globo, raffinato le forme di guadagno e investimento. Il sesso e il denaro restano, esplicitamente o sotto traccia, i valori centrali della società.

Su questo sfondo, nel presente dell’attualità, nel microcosmo inventato e realistico di Cernedo (viene da pensare a toponimi simili in Brianza) si affrontano la genialità creatività e imprenditoriale dell’eccellenza del marchio italiano degli orologi, la Stella della famiglia Trovato, contro la corazzata della multinazionale con sede centrale in Svizzera LiebenKraft che vuole acquisirla, sfruttando la crisi economica sviluppata da una esosa richiesta dell’Agenzia delle entrate per tasse non pagate, per ingenuità o dolo poco importa.

Tema non nuovo nel romanzo, a partire dal crack economico che travolge il piccolo e raffinato marchio italiano, affrontato, anche negli ultimi tempi, da romanzi, da film, da serie televisive e perfino riuscite opere teatrali, che offre a Buzzolan la possibilità di esercitare le sue doti narrative migliori e, nel caso di In verità, proporre una galleria di personaggi memorabili. Senza mancare di indicarci, diversamente dal modello di Tozzi, una via di uscita rappresentata dall’improvviso inceppamento di un cinico meccanismo creduto perfetto.

L’imprevisto, nei racconti di Buzzolan, è quasi sempre originato da uno sguardo che ritorna creaturale e capace di meravigliarsi della realtà, come quello di un bambino. Nei ringraziamenti, infatti, lo scrittore ci indica da dove provenga l’idea di rivolgersi alle stelle e ai pianeti del più giovane della famiglia Trovato: «Questo libro non avrebbe preso forma senza (…) la devozione, la fedeltà di mio figlio Davide a Marte». Una fedeltà che, nell’intreccio del romanzo è capace di contagiare Amelia, della LiebenKraft, «sciacallo di professione», addetta alle trattative per rilevare nel modo economicamente migliore le piccole produzioni in difficoltà.

Si leggano le pagine in corsivo dell’incipit, poetiche e misteriose, con l’accenno ad una eclissi non meglio identificata da chi si trova sotto quel cielo insolito, di ritorno dalla spaventosa carneficina della Prima guerra mondiale.

La cometa Nova, citata ad un certo punto del romanzo, verrà ad illuminare (nei modi che lascio al lettore gustare pienamente) alcune scelte, allacciandone, proprio nell’anno della pubblicazione del romanzo di Tozzi, alla comune meraviglia i bisnonni e i nonni dei protagonisti dei dissidi dell’oggi. Il cielo che si muove non è altro, in termini scientifici, che l’eclissi del 29 maggio 1919; ad uomini di poca cultura, ma di profonda saggezza fa dire «ho visto una cosa, e quella cosa gli ha fatto capire che la sua vita sarebbe cambiata per sempre».

Redimersi, per alcuni personaggi di In verità, nella famiglia Trovato e nei dirigenti della multinazionale svizzera, vuol dire attraversare l’eclissi per ritrovare luce, entrare nella schiera di quelle persone le cui «immagini, i volti, le storie (quelle raccontate e quelle che non sapremo mai) [sono quelle] di chi a rischio o costo della vita attraversa mari, deserti, propaganda, pregiudizi per cercare una vita degna».

Tra i molti esempi possibili ne scelgo due, una donna saldamente e cinicamente in carriera e un ragazzo, celebre più di quanto abbia desiderato da piccolo. Amelia Rossano della LiebenKraft si scontra con un elemento non previsto nella sua professione di sciacallo di piccoli marchi da risucchiare facendogli perdere una originaria identità: il fattore umano.

Al soldo della multinazionale troviamo il campione di football italo-camerunense Hamidi Paolo Illica, il classico genio e sregolatezza, ritratto in un momento delicatissimo della carriera in cui un ginocchio malandato lo tiene fuori dal campo e ne aumenta la tentazione al vizio della coca, della bella vita notturna, del sesso spinto.

I rapporti burrascosi con i padroni svizzeri, una strana calma ritrovata in una amicizia e nel fare del bene, quando passa da idolo a signor nessuno, gustando quella solitudine come ritrovamento inaspettato di un io profondo, lo «convertono» e letteralmente lo «redimono».

Lo persuadono: questo è l’autentico capolavoro del calciatore più abile dell’intero globo, non il dribbling o il goal più spettacolare, il miracolo che poteva anche non avvenire e che porta la sua squadra in alto nella Champions.

Come molti artisti baciati da capacità uniche, il capolavoro, la partita migliore, coincide con l’annientamento, con la melodia perfetta suonata davanti alle divinità o ai diavoli dell’inferno. Per lui, come nella pagina finale in corsivo che in un giro di boa torna all’incipit, nel 1919, l’eclissi è terminata e «il cielo si è riaperto, e pare più grande di prima su tutta la terra e su tutte le creature che lo abitano».

di Fabio Pierangeli