Sull’elaborazione di una teodicea non razionale

Alla ricerca del Dio nascosto

Mazegi, «La Passione di Cristo»
29 agosto 2020

«Una teodicea “intuitiva”»: è questo il titolo dello stralcio, che pubblichiamo, della lezione «La teodicea ieri e oggi. La banale tragicità del male», tenuta in videoconferenza da Giuseppe Lorizio, docente di teologia fondamentale alla Pontificia università lateranense, nell’ambito del ciclo di simposi on line dedicati alla Teodicea di Antonio Rosmini che si sono conclusi il 28 agosto. In questa relazione Lorizio affronta il tema del rapporto del tragico con il divino, di come quel Dio lontano che sembra rimanere in silenzio possa percepirsi con l’intuizione intellettuale, elaborando tre rappresentazioni: “il Dio spettatore”, “il Dio nascosto” e “il Dio paziente” e sofferente, immagine che dà luogo al superamento di una visione della teodicea come permissione del male da parte dell’Onnipotente. Un contributo che aiuti a dare una risposta umana e cristiana a quanti si vanno interrogando oggi sull’origine del male.

«Il tragico è l’organo supremo dell’intuizione intellettuale e nel nefas della tragedia, nella lontananza massima del dio dall’uomo, traspare, quasi per absentiam l’unità dell’essere e la presenza del divino e della totalità della vita nell’uomo» (Remo Bodei, Hölderlin: la filosofia e il tragico, in Friedrich Hölderlin, Sul tragico, Feltrinelli, Milano, 2017). Pensando a Edipo e Antigone, il poeta filosofo tedesco ebbe a scrivere: «Una intuizione intellettuale che non può essere altro che l’unione con tutto ciò che vive; questa non può essere certo sentita da un animo (gemüt) angusto, può solo essere presentita nelle sue più alte aspirazioni, ma può essere riconosciuta dallo spirito (geist) e deriva dall’impossibilità di una scissione e di un isolamento (vereinzelung) assoluto» (Werke, iv). «Solo l’intuizione intellettuale al culmine della scissione lascia trasparire l’unità dell’io con la natura infinita» (Bodei), ma siamo anche avvertiti del fatto che non è l’eroe tragico il soggetto di tale intuizione, bensì lo spettatore o, se si vuole, il lettore, di tragedie. La catarsi passa attraverso questa conoscenza intuitiva che segue l’immaginazione e precede la riflessione. E il tutto nella prospettiva di quel quartetto delle dissonanze, che mozartianamente (k 465) le risolve in armoniche sequenze (Hölderlin suonatore di violino e di flauto conosceva bene questi termini musicali).

L’immaginazione ci lascia intuire e pensare tre figure o rappresentazioni del divino, connesse con il tragico e quindi con la possibilità di elaborare una teodicea non razionale. La prima di queste figure è quella dello “spettatore”. György Lukács ci avverte: «Il dramma è un gioco tra l’uomo e il destino: un gioco dove Dio è lo spettatore. È soltanto spettatore, e la sua parola e il suo gesto non si mescolano mai alle parole e ai gesti dei giocatori. Su di essi si posano appena i suoi sguardi. “Chi guarda Dio, muore” ha scritto Ibsen [ma noi lo sappiamo dalle Scritture]; ma può vivere colui sul quale si è posato lo sguardo di Dio?». A maggior ragione se lo spettatore divino scommette sull’uomo nella sua partita con Satana o col destino. O forse proprio perché Dio ha scommesso su di noi, possiamo sopravvivere al suo sguardo. Ma con quale destino fatale si scontra il tragico cristiano? La seconda figura divina è quella del “Dio nascosto” (Atti, 17, 23) che, a detta di Hans Jonas, l’ebraismo non può in alcun modo reggere (Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il melangolo, Genova, 1990, i, ed. 1973), per cui se bisogna scegliere fra la possibilità di conoscere Dio, la sua onnipotenza e la sua bontà bisogna rinunciare alla potenza assoluta e accostarsi a un Dio tanto compassionevole e misericordioso quanto impotente. E così si liquida il paradosso e tutto sembra ricomporsi e giustificarsi. Ma il nascondimento resta e continua a interpellarci, per esempio dalle scene dell’ultimo film di Rodolfo Bisatti, Al dio ignoto. Qui l’altare (al dio ignoto) è l’hospice nel quale lavora Lucia (Laura Pellicciani), la madre che ha perduto la giovane figlia, Anna, e deve lottare con Gabriel (Francesco Cerutti), il figliuolo adolescente che reagisce al lutto dedicandosi allo sport estremo della mountain bike. La liturgia è la preghiera che, nella cappella, pronunzia i versi del giovane Nietzsche, non ancora credente, che diventerà non più credente: ateismo tragico che si genera dal desiderio del “Cerco Dio!” che ritroveremo nell’uomo folle della Gaia scienza, 125: «Io voglio conoscerti, o Ignoto, / che afferri la mia anima nel profondo / che percorri la mia vita come una tempesta, / o inafferrabile, a me affine! / Voglio conoscerti, anzi servirti».

Giulio (Paolo Bonacelli), il professore di filosofia morale (forse il personaggio più significativo del film) gioca a scacchi, ma non contro la morte, come il cavaliere Antonius de Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, ma contro il povero Mario, che naturalmente perde. Gli scacchi sono una metafora dell’esistenza e del mistero di Dio, allorché il suo avversario gli chiede: «A cosa serve il re?»; «La sua presenza fa muovere tutti i pezzi», risponde il filosofo, e Mario: «È come un dio!». Il re va “nascosto” dietro la torre, onde preservarlo dagli attacchi nemici. Alla domanda su chi sia Dio, Giulio risponde «una sfera il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo», citando il Libro dei ventiquattro filosofi (XII secolo). Del resto Søren Kierkegaard ci aveva avvertiti: «Dio non pensa, crea; non esiste, è eterno». E di fronte alla morte che lo sta raggiungendo, Giulio dice: «È mancato, se ne è andato, è scomparso, il caro estinto: quante parole per dire una cosa così semplice: arrivederci, Lucia!», come alla signora che stava lasciando l’hospice aveva detto: «Ci rivedremo in groppa al drago».

E al silenzio/nascondimento di Dio corrisponde quello dell’eroe tragico, così come lo interpreta Franz Rosenzweig (La stella della redenzione, Marietti, Genova, 1985, i, ed. 1919): «L’eroe tragico ha soltanto un linguaggio che gli corrisponde alla perfezione: il silenzio […]. Tacendo l’eroe spezza i ponti che lo collegano a Dio e al mondo e si eleva dai campi piatti e uggiosi della personalità, che parlando si delimita e si individualizza rispetto agli altri, nella glaciale solitudine del sé».

Finalmente la terza figura, che ci porta al superamento di una visione della teodicea come permissione del male da parte di Dio e chiama in causa il “principio di causalità”. Il Dio “paziente” e sofferente, che può patire e persino morire, anzi che ha patito ed è morto nel suo Figlio. Il quale risorge, come il Dio cantato da Francesco Guccini, dopo tre giorni, ma non toglie il tragico, che permane nelle stimmate della passione, nella tomba vuota, unica reliquia della Pasqua e nel suo essere in agonia fino alla fine del mondo. Nell’orizzonte della fede cristiana nella risurrezione, la croce si carica di un senso cosmico e la staurologia interpella il nostro oggi, ritrovandosi carsicamente, ma rifiutando di identificarsi con l’antropodicea emergente alle soglie del “novacene”. La futura era immaginata — anzi intuita giacché nelle pagine di questo piccolo libro ritorna la necessità dell’intuizione, che il pensiero razionale emargina o esclude: «La civiltà umana ha preso una brutta piega quando ha cominciato a denigrare l’intuizione. Senza di essa moriremmo. Come ha detto Einstein: “La mente intuitiva è un dono sacro e la mente razionale è un servo fedele”» — da James Lovelock, il geniale inventore dell’“ipotesi Gaia”, il quale nel suo ultimo saggio (pubblicato all’età di 100 anni: è nato nel 1919) richiama la necessità della teodicea in chiave “ecomodernista”: «Come ha scritto nel 2016 Clive Hamilton, professore australiano di Public Ethics nel suo The Theodicy of the “Good Anthropocene” (in Environmental Humanities 7/2015): «La promessa aurea di una nuova alba fa sentire le vittime inclini a protestare contro il sistema al sicuro nella loro resistenza silenziosa. Il messaggio che l’Antropocene generoso rivolge a chi soffre oggi (e in futuro) a causa della siccità, delle alluvioni e delle ondate di calore prodotte dagli esseri umani [persino della pandemia] è: stai soffrendo per un bene maggiore; ti aiuteremo ad alleviare la tua sofferenza, se possiamo, ma il tuo dolore è giustificato» (James Lovelock, Novacene. L’età dell’iperintelligenza, Bollati Boringhieri, Bologna, 2020, i, ed. 2019). Non così la teodicea staurologica, che ha in comune con questo “ottimismo antropologico” e oserei dire “cosmico” soltanto il carattere penultimo della sofferenza e del male, che, come abbiamo imparato dalla Arendt non può essere radicale, ma solo “estremo” e fa pensare.

Nella figura del Dio paziente si traccia il solco e si segna la differenza fra Gesù di Nazareth e l’eroe tragico, fra l’abbandono di Dio sperimentato dal crocifisso e la negazione del dio pagano, col quale l’eroe ingaggia una lotta impari. «Veritiero è quel detto — suggerisce Unamuno — “chi ti ama, ti farà piangere”, perché la verità fa piangere. “L’amore che non mortifica non merita un nome così divino”, diceva l’ardente apostolo portoghese fra Thomé de Jesus». E il legno della croce bagnato dal sudore, dal sangue e dal pianto del Figlio, diviene punto di Archimede per una teodicea iconica, intuitiva e soprattutto agapica.

di Giuseppe Lorizio