L’attualità de «La cultura dei vinti» di Wolfgang Schivelbusch

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La ricostruzione di Berlino ovest finanziata dal Piano Marshall (1949)
20 agosto 2020

Attorno alla decisione di cancellare per ragioni di political correctness il film Via col Vento, caposaldo della storia della cinematografia, dalla library dei film in streaming della piattaforma Hbo Max in attesa di farlo precedere da un’introduzione esplicativa del contesto di guerra civile e di abolizione dello schiavismo nel quale la vicenda si svolge, è sorto un dibattito che si è sviluppato su piani diversi.

Tra di essi si segnala la rinnovata attenzione per un testo di due decenni or sono, edito in Italia dal Mulino nel 2014, La cultura dei vinti, di Wolfgang Schivelbusch. L’autore è uno storico particolare. Non è un cattedratico, non insegna, si limita a ricercare, riflettere e pubblicare i risultati del lavoro fatto, incentrato sullo studio delle mentalità, sulla comprensione dei meccanismi e sulla ricerca delle costanti che muovono l’agire umano. L’opera che lo rese noto alla fine degli anni Ottanta fu La storia dei viaggi in ferrovia, approccio originale alle trasformazioni avvenute nel corso dell’Ottocento, tradotto in italiano per i tipi di Einaudi.

Il collegamento tra il testo di Schivelbusch e l’ambientazione di Via col Vento è molto stretto. Nella sua ricerca l’autore individua tre casi esemplari di sconfitta, quelli del Sud degli Stati Uniti nella guerra civile, della Francia contro la Prussia nel 1870-1871 e della Germania nella prima guerra mondiale, per descrivere come nascono e vengono vissuti dagli sconfitti condotte, forme e modalità di accettazione dell’accaduto, meccanismi psicologici di rifiuto di riconoscere l’accaduto, nascita di desideri di rivincita.

La presentazione dei fatti, precisa e documentata, è particolarmente interessante perché libera dalle incrostazioni e dalle rigidità che a volte vincolano le opere degli accademici, costretti dalle pressioni dell’ambiente nel quale lavorano a rispettare canoni e confrontarsi con interpretazioni riconosciute come significative, anche solo per contraddirle.

Nel loro complesso i risultati raggiunti da Schivelbusch denunciano il prevalere a livello generalizzato di atteggiamenti psicologici preoccupanti. Le guerre prese in considerazione hanno svolgimenti ed esiti ben diversi l’una dall’altra. Il confronto tra Unionisti e Confederati dura quattro anni e termina con la resa senza condizioni dei secondi dopo che i nordisti hanno messo in atto per la prima volta dai tempi dell’antichità la strategia della terra bruciata, invadendo il territorio nemico e mettendolo a ferro e fuoco, con l’intento di piegare la resistenza dei difensori. La guerra franco-prussiana si conclude con la feroce repressione della Comune di Parigi da parte delle truppe regolari francesi, che affermano in questo modo l’autorità della Terza Repubblica. La prima guerra mondiale si chiude con il collasso della Germania, stremata dal blocco cui è sottoposta da cinque anni e abbandonata da tutti gli alleati, mentre le truppe tedesche sono ancora padrone di una parte considerevole del nord della Francia.

Tre contesti ben diversi che aprono però a sviluppi nei quali Schivelbusch individua numerose analogie: il desiderio dei vinti di ripartire dal momento nel quale le ostilità hanno avuto inizio, come se non fosse successo niente, accollando a pochi capri espiatori la responsabilità della guerra e della sconfitta, la pretesa dei vincitori di caricare sulle spalle del nemico battuto l’intero costo, umano e materiale del conflitto, con l’accusa di averne la completa responsabilità, la nascita del revanscismo, la volontà di ribaltare sul piano culturale i termini bellici, soprattutto la determinazione, spesso inconsapevole e a volte criminale, a interpretare il momento storico nel quale si abbassano le armi in termini esclusivi di vincitori e vinti, anziché di popoli alla ricerca della pace.

Questa lettura della situazione, nel caso tedesco neppure pienamente legittima dato che il presidente Wodroow Wilson aveva sostenuto che l’intervento statunitense mirava a una pace equa e duratura e sulla base di quella assicurazione la Germania aveva deposto le armi, pone molte volte le basi per un nuovo conflitto.

Lo studio di Schivelbusch non si confronta con gli esiti delle guerre dell’ultimo secolo, anche se le poche pagine dell’epilogo sono dedicate alla fine della guerra fredda, riconosciuta come un vero e proprio conflitto, che solo il terrore per un’ecatombe nucleare condiviso per fortuna dai contendenti vide forme contenute di violenza, che pure non mancò. Forse dal successo statunitense nella contrapposizione con l’Urss si possono trarre alcuni elementi in positivo, notando come alla base della tenuta dell’Europa Occidentale di fronte alla pressione di un gigante prossimo e agguerrito si trovi la stagione del Piano Marshall, così di frequente invocato a proposito e a sproposito, una delle poche occasioni nella storia nella quale il vincitore si è curato delle sorti del vinto. Al contrario di quanto avvenne nel 1919, sebbene John Keynes avesse avvertito con il suo celebre Le conseguenze economiche della pace che le condizioni imposte dai vincitori alla Germania avrebbero condotto al disastro. Qualcuno potrebbe dire che nel 1947 il Piano Marshall venne sviluppato dagli Stati Uniti anche per un preciso interesse e che lo stesso fecero i governi dei Paesi appena usciti dalla guerra quando crearono la struttura politica divenuta l’Unione europea. Questo conferma che si trattò di decisioni giuste e dovrebbe spingere i Paesi dall’economia più sviluppata a mostrare ogni volta che sia possibile, e cioè sempre, attenzione e disponibilità al sostegno dei Paesi che vivono in condizioni di disagio.

di Sergio Valzania