A colloquio con suor Antoinette Assaf responsabile del dispensario Saint-Antoine

A Beirut c’è bisogno di unire i cuori e le menti

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07 agosto 2020

«Prima, ho sentito una piccola esplosione. Mi sono alzata dal letto, stavo riposando dato che avevo preso una piccola pausa dal mio lavoro. Ad un tratto, un grande boato. Vivo al quinto piano di un edificio che ospita il dispensario Saint-Antoine a Beirut», nel quartiere di Rouiesset-Jdideh, un’area sovraffollata e impoverita in cui vive una popolazione mista di cristiani e musulmani. «Tutto crollava. Oh mio Dio! Cosa faccio? Oggetti e mobili caduti per terra. Abbiamo iniziato a correre. Ci bombardano? Perché? Intanto continuo a sentire altre esplosioni, i palazzi crollano, le finestre esplodono. Gente che urla, che cerca aiuto, vedo sangue e macerie dappertutto. Queste terribili immagini ci hanno risvegliato il brutto ricordo della guerra e dei bombardamenti, ma questa volta nessuno ci ha avvertiti! Intanto, dal cielo si alza una enorme nuvola di fumo nero mescolata con rosa e bianco. Iniziamo a chiamare tutte le persone che conosciamo e che vivono nella zona dell’esplosione, vicino al porto: amici, parenti, collaboratori, impiegati, volontari, benefattori». Suor Antoinette Assaf, 53 anni, libanese di Beirut, racconta a «L’Osservatore Romano» quanto avvenuto nella capitale martedì scorso. Un episodio terribile, di cui non si conosce al momento il numero esatto delle vittime e dei danni provocati. Il Paese dei cedri non aveva bisogno di un altro trauma di questa portata. La religiosa, che è responsabile dello sviluppo missioni della Congregazione di Nostra Signora della Carità del Buon Pastore (Suore del Buon Pastore) e direttrice del dispensario dal 2016, insieme alle consorelle, a medici, infermieri e volontari offre gratuitamente cure mediche specializzate e assicura un servizio sanitario di base a circa 21.000 persone, come già detto a Rouiesset-Jdideh.

Quante persone assistete quotidianamente?

In media circa 150 al giorno, fino a 7.000 all’anno. Dall’inizio della pandemia abbiamo cercato di limitare il numero a quasi 90 pazienti al giorno per evitare il rischio contagi. Fin dal primo istante dell’esplosione, abbiamo dato la nostra disponibilità, ma poiché il nostro è un centro di assistenza primaria, tutte le vittime sono state portate al pronto soccorso. Da noi stanno venendo persone a chiedere cibo e aiuto, ma soprattutto cercano qualcuno che possa ascoltarli e capire il dramma subito. Gente disperata e traumatizzata che ha bisogno di un po’ di speranza. E questa è la nostra prima missione, cercare di dare un po’ di supporto, sostegno, ascolto, presenza.

Perché proprio Beirut? Perché proprio il Libano? Una città e un Paese dove sembra esserci una chiara forma di democrazia e dove persone di diverse fedi vivono in pace ed armonia?

A Beirut c’è mancanza di responsabilità. Noi continuiamo a sperare anche se il punto debole del Libano è l’assenza di una visione comune del Paese. Ogni gruppo la vede diversamente e non siamo stati in grado di unificare questa visione. La nostra preghiera è che questo presto potrà essere possibile.

Quanti siete a lavorare nel dispensario?

La nostra squadra è composta da 2 suore, 15 impiegati e 30 medici. Abbiamo diverse partnership, in particolare con la facoltà di Medicina dell’Università Saint-Joseph. La loro presenza garantisce un servizio medico di qualità, dal momento che questo ateneo è gestito dai padri gesuiti con i quali condividiamo la stessa visione sulla persona umana, in particolare i vulnerabili che hanno diritto ai servizi sanitari tanto quanto i benestanti. «Une personne vaut mieux qu’un monde» dicevano i nostri fondatori, san Jean Eudes e santa Marie Euphrasie.

Qual è e cosa cambierà della vostra opera pastorale in Libano?

Continueremo a fare quello che abbiamo sempre fatto: servire gli altri. Cerchiamo di essere una presenza tra i vulnerabili e i più svantaggiati che vivono in condizioni precarie, in particolare donne, ragazze e bambini. Facciamo di tutto per rivelare loro l’amore misericordioso di Gesù Buon Pastore, con opere di misericordia, sostegno e protezione.

Di cosa ha bisogno il Libano per ripartire?

Prima di tutto c’è bisogno di unire i cuori e le menti. Occorre sostenerci a vicenda per riappropriarci delle forze fisiche e psicologiche necessarie per superare questo grande shock. Già prima dell’esplosione, oltre il 55 per cento della popolazione viveva al di sotto della soglia di povertà. Con questa deflagrazione, la popolazione è in ginocchio, senza casa, lavoro, affetti. I giovani hanno molto potenziale e possono contribuire a ricostruire il Paese, ma le opportunità sono limitate anche per loro. Il Libano non può far fronte da solo agli innumerevoli problemi.

Lei pensa che sia indispensabile un aiuto economico da parte della comunità internazionale?

Sì, è necessario, anche perché è evidente la crisi economica. Però, anche il Libano deve diventare produttivo ed essere in grado di lavorare per il proprio sviluppo. La strada per il recupero è lunga, molto lunga.

La Chiesa cattolica e le altre religioni possono svolgere un ruolo determinante nella rinascita del Libano o questo compito spetta solo alle autorità governative?

La Chiesa e le altre autorità religiose hanno un ruolo primario, soprattutto perché i libanesi sono molto credenti. Ripeto: dobbiamo unire i cuori, consolidare la convivialità e la coesione sociale. Le Chiese, molte organizzazioni, ong, gruppi interreligiosi stanno lavorando su questo aspetto e portano avanti da diverso tempo molte iniziative. Credo che senza questi contributi la situazione potrebbe essere anche peggiore di quella attuale. Ma queste azioni non escludono il ruolo delle autorità governative che hanno anche una grande responsabilità, poiché hanno in mano le soluzioni politiche.

Se volesse fare un appello a chi lo rivolgerebbe e cosa chiederebbe?

Innanzitutto, un appello alla preghiera affinché la gente non perda la speranza, ma possa mantenere la fede in Dio e la speranza nel proprio Paese. Credo che il popolo libanese sia paragonabile all’Araba Fenice, in grado di rinascere dalle proprie ceneri dopo la morte. E un appello lo rivolgo a quanti hanno a cuore il Libano. Abbiamo bisogno di solidarietà: messaggi di conforto e affetto. Questo ci permette di rialzarsi. E, infine, sono fondamentali gli aiuti economici, materiale, prodotti e tutto ciò che può servire a dare una mano alle persone che hanno perso tutto.

Per chi volesse effettuare una donazione può farlo attraverso il sito: https://www.gsif.it/emergencylebanon/.

di Francesco Ricupero