Dichiarazione della Conferenza delle Chiese del Pacifico

Verso una nuova normalità

The Reference Group of the Pilgrimage of Justice and Peace and the Theological Study Group of the ...
08 luglio 2020

«L’impatto del coronavirus, sebbene profondamente tragico da una parte, ci offre un’opportunità unica di immaginare la vita in un modo diverso. Mai prima d’ora il nostro mondo è stato così benedetto dalla creatività e dall’ingegnosità, eppure anche così tormentato dalla nostra follia nel credere che non ci sono limiti al nostro potere e a ciò che possiamo fare. Il covid-19 ha rivelato questa pazzia nel modo più sorprendente e impressionante. Si mette a nudo e si frantuma l’illusione di una “normalità” che il mondo, e noi nella nostra regione, ha dato per scontata, e del suo carattere inevitabile». È quanto sostiene la pastora Tevita Havea, moderatrice della Conferenza delle Chiese del Pacifico (The Pacific Conference of Churches, Pcc), organismo ecumenico nato nel 1961, che oggi raggruppa 30 Chiese e otto Consigli di Chiese, ritenendo che il 2020 è un momento di svolta per le isole del Pacifico, in particolare nel ripensare l’ecumenismo, l’ecologia, la politica e lo sviluppo nella regione, e incoraggiandole a considerare le lezioni imparate dal passato per «creare una nuova normalità».

Riguardo all’ecumenismo, i responsabili religiosi devono «indicare la rotta del nostro viaggio», spiega la moderatrice, delineando la visione futura di una nuova modalità di essere Chiese: non più guardando, come nel passato, a modelli “presi in prestito” dal mondo occidentale, ma tenendo conto di esperienze, culture, tradizioni e visioni del mondo diverse, nell’ottica emersa negli ultimi anni dallo spostamento nella visione dell’ecumenismo, dall’idea di «unità del corpo di Cristo» a quella di «famiglia di Dio».

L’ecologia è il secondo punto cruciale evocato dalla pastora nella sua lettera: sottolineando l’importanza come dovere cristiano di essere custodi della creazione di Dio, il testo esprime l’impegno nella cooperazione e nel lavoro a livello locale e regionale affinché gli effetti della globalizzazione non siano devastanti. Molto dipende dalla comprensione dell’interdipendenza dei vari fattori, del fatto che Chiese, sviluppo, politica, economia e ambiente sono strettamente interconnessi. Il futuro della regione pacifica dipenderà anche da quanto si riuscirà a far valere, sottolinea Havea, «la saggezza delle nostre tradizioni, culture e spiritualità […] nel definire i nostri specifici e distinti indicatori di sviluppo».

E qui si inserisce il terzo punto chiave della lettera, la politica: anche in questo caso la moderatrice ribadisce chiaramente che la “nuova normalità” non deve più essere quella modellata a New York o a Londra, e nemmeno a Canberra o a Wellington, ma deve corrispondere alla realtà delle popolazioni del Pacifico, con il loro bagaglio culturale, di tradizioni e di spiritualità. «Dobbiamo lavorare insieme — dichiara la moderatrice — per creare obiettivi politici comuni, utilizzando indicatori per misurare lo stato di salute della nostra vita politica. Abbiamo bisogno di rinunciare all’abitudine di ascoltare soltanto persone che ci assomigliano o che provengono dalla stessa sottoregione: Polinesia, Micronesia o Melanesia». In questo contesto la “nuova normalità” deve «superare i confini politici artificiali creati dal passato coloniale», e vedere soprattutto persone «orgogliose delle rispettive storie».

Nell’ultima parte del testo, dedicata allo sviluppo, Tevita Havea sottolinea che oggi l’identità regionale e locale nel Pacifico sta subendo non solo pressioni oggettive derivanti da un consumo, una commercializzazione e una secolarizzazione sempre più crescenti — che sono parte integrante del processo di globalizzazione — ma anche le conseguenze dell’incapacità a definire ciò che lo sviluppo dovrebbe essere nella regione.

«Il risultato — precisa — è stato il declino dell’autostima in quanto persone uniche del Pacifico e, quindi, il declino della cooperazione e dei rapporti di sviluppo». Ne è conseguita una perdita di morale nelle rispettive società, «accompagnata da un deficit di fiducia nei sistemi politici, nei leader politici ed ecclesiali e nella responsabilità reciproca tra persone».

Quello che occorre fare non è subire passivamente le conseguenze della depredazione e devastazione di risorse, ma riscrivere una diversa storia di sviluppo, che, conclude il documento, non riguarda solo il benessere materiale e fisico.