«L’impatto del coronavirus, sebbene profondamente tragico da una parte, ci offre un’opportunità unica di immaginare la vita in un modo diverso. Mai prima d’ora il nostro mondo è stato così benedetto dalla creatività e dall’ingegnosità, eppure anche così tormentato dalla nostra follia nel credere che non ci sono limiti al nostro potere e a ciò che possiamo fare. Il covid-19 ha rivelato questa pazzia nel modo più sorprendente e impressionante. Si mette a nudo e si frantuma l’illusione di una “normalità” che il mondo, e noi nella nostra regione, ha dato per scontata, e del suo carattere inevitabile». È quanto sostiene la pastora Tevita Havea, moderatrice della Conferenza delle Chiese del Pacifico (The Pacific Conference of Churches, Pcc), organismo ecumenico nato nel 1961, che oggi raggruppa 30 Chiese e otto Consigli di Chiese, ritenendo che il 2020 è un momento di svolta per le isole del Pacifico, in particolare nel ripensare l’ecumenismo, l’ecologia, la politica e lo sviluppo nella regione, e incoraggiandole a considerare le lezioni imparate dal passato per «creare una nuova normalità».
Riguardo all’ecumenismo, i responsabili religiosi devono «indicare la rotta del nostro viaggio», spiega la moderatrice, delineando la visione futura di una nuova modalità di essere Chiese: non più guardando, come nel passato, a modelli “presi in prestito” dal mondo occidentale, ma tenendo conto di esperienze, culture, tradizioni e visioni del mondo diverse, nell’ottica emersa negli ultimi anni dallo spostamento nella visione dell’ecumenismo, dall’idea di «unità del corpo di Cristo» a quella di «famiglia di Dio».
L’ecologia è il secondo punto cruciale evocato dalla pastora nella sua lettera: sottolineando l’importanza come dovere cristiano di essere custodi della creazione di Dio, il testo esprime l’impegno nella cooperazione e nel lavoro a livello locale e regionale affinché gli effetti della globalizzazione non siano devastanti. Molto dipende dalla comprensione dell’interdipendenza dei vari fattori, del fatto che Chiese, sviluppo, politica, economia e ambiente sono strettamente interconnessi. Il futuro della regione pacifica dipenderà anche da quanto si riuscirà a far valere, sottolinea Havea, «la saggezza delle nostre tradizioni, culture e spiritualità […] nel definire i nostri specifici e distinti indicatori di sviluppo».
E qui si inserisce il terzo punto chiave della lettera, la politica: anche in questo caso la moderatrice ribadisce chiaramente che la “nuova normalità” non deve più essere quella modellata a New York o a Londra, e nemmeno a Canberra o a Wellington, ma deve corrispondere alla realtà delle popolazioni del Pacifico, con il loro bagaglio culturale, di tradizioni e di spiritualità. «Dobbiamo lavorare insieme — dichiara la moderatrice — per creare obiettivi politici comuni, utilizzando indicatori per misurare lo stato di salute della nostra vita politica. Abbiamo bisogno di rinunciare all’abitudine di ascoltare soltanto persone che ci assomigliano o che provengono dalla stessa sottoregione: Polinesia, Micronesia o Melanesia». In questo contesto la “nuova normalità” deve «superare i confini politici artificiali creati dal passato coloniale», e vedere soprattutto persone «orgogliose delle rispettive storie».
Nell’ultima parte del testo, dedicata allo sviluppo, Tevita Havea sottolinea che oggi l’identità regionale e locale nel Pacifico sta subendo non solo pressioni oggettive derivanti da un consumo, una commercializzazione e una secolarizzazione sempre più crescenti — che sono parte integrante del processo di globalizzazione — ma anche le conseguenze dell’incapacità a definire ciò che lo sviluppo dovrebbe essere nella regione.
«Il risultato — precisa — è stato il declino dell’autostima in quanto persone uniche del Pacifico e, quindi, il declino della cooperazione e dei rapporti di sviluppo». Ne è conseguita una perdita di morale nelle rispettive società, «accompagnata da un deficit di fiducia nei sistemi politici, nei leader politici ed ecclesiali e nella responsabilità reciproca tra persone».
Quello che occorre fare non è subire passivamente le conseguenze della depredazione e devastazione di risorse, ma riscrivere una diversa storia di sviluppo, che, conclude il documento, non riguarda solo il benessere materiale e fisico.