Esistono libri che arricchiscono di particolari illuminanti segmenti di storia, altri che la storia la fanno. È questo il caso dell’imponente opera di ricerca sulla cappella musicale della Basilica di San Pietro, condotta nell’arco di circa mezzo secolo da Giancarlo Rostirolla, con una determinazione pari solo alla nota professionalità dello studioso Musica e musicisti nella Basilica di San Pietro. Cinque secoli di storia della Cappella Giulia (Tomo i, Dalle origini al 1804 e Tomo ii, Dal 1804 ai giorni d’oggi, Edizioni Capitolo Vaticano, 2014). I due poderosi tomi che ne sono l’esito editoriale — integrati da appendici documentarie oggi parzialmente consultabili online — recano traccia visibile dell’ingente mole di dati che, dalla quiete degli Archivi della Biblioteca Apostolica Vaticana, chiedeva di tornare alla luce, e di essere ordinata in una prospettiva temporale capace di intrecciare finalmente informazioni della più disparata natura, di storia musicale quanto economica, urbanistica, sociologica, che si snodano come perle di una collana dai molti fili lungo l’arco degli ultimi cinque secoli.
Simile alla goccia che scava la pietra, l’impresa che inizialmente non poteva che apparire per lo meno ardua al suo stesso autore, e che avrebbe intimorito persino un’équipe di specialisti delle varie discipline sopra menzionate, si configura oggi quale pietra miliare per lo studio del professionismo musicale romano e non solo. Nonostante i numerosi studi sulla Cappella Giulia, infatti, mancava all’attenzione degli studiosi uno sguardo onnicomprensivo e interdisciplinare, un’indagine rigorosa e dettagliata su tutti gli aspetti musicali e organizzativi, giuridici e amministrativi, di una istituzione ecclesiastica annoverabile tra gli enti musicali più importanti al mondo.
Un microcosmo umano e musicale la cui attività senza soluzione di continuità dal 1513, anno della sua istituzione con Motu proprio di Giulio ii, al 2013, ricorrenza del quinto centenario di vita, influenza ed è a sua volta influenzato dagli eventi della storia, configurandosi quale fucina di compositori e di linguaggi musicali in grado di concorrere a pieno titolo all’evoluzione dello stile della polifonia classica su scala europea. Come un inno di lode al Signore, la sua ricerca — tra i decenni e le mute carte su cui era posata la polvere dei secoli — innalza un edificio storico solido e multiprospettico, dalle fondamenta altrettanto salde e profonde in quanto basate sull’indagine di atti amministrativi risalenti addirittura a circa un secolo prima l’istituzione della Cappella Giulia, e che rivelano nomi e numeri variabili di cantori e di musicisti, insieme con la progressiva realizzazione del disegno di Giulio ii di fornire un prezioso supporto sonoro di cantori validi alla Basilica di San Pietro.
Dopo lo sguardo retrospettivo del primo capitolo, i due successivi accompagnano il lettore attraverso i primi anni di attività della Cappella, caratterizzati da un costante incremento nel numero dei cantori e dalla ripresa dell’attività liturgica dopo gli anni difficili della peste e dell’assedio da parte delle truppe di Carlo v, tra il 1527 e il 1534.
Si volta quindi pagina, in senso metaforico e non, si costruisce voce dopo voce, anno dopo anno, un monumento vivo e perenne alla musica, di un’eternità sempre attuale: dal v Capitolo la narrazione assume i volti dei magistri capellae che guidarono la Cappella Giulia, a partire da Giovanni Pierluigi da Palestrina, il primo a forgiarsi di questo titolo. A partire da qui saranno sempre loro, i maestri di cappella, a porgere la mano al lettore e a guidarlo lungo le vie tortuose della storia: quaranta capitoli introdotti dai nomi e dalle biografie dei relativi compositori chiamati alla guida musicale dell’istituzione dalla crescente importanza e storicamente inquadrati con la nota dovizia di particolari caratterizzanti la penna dello studioso.
Perfettamente bilanciata tra accuratezza documentaria e nerbo narrativo, la trattazione non scivola mai nel pur meritorio e indispensabile dato compilativo, al contrario affascina anche a una lettura superficiale per la sua capacità di posarsi come filigrana su cinque secoli di Storia, e di rivelarne tutti i mutamenti di forme e colori, dai più minuti e progressivi fino a quelli più vistosi.
È sufficiente citare alcuni dei maestri alla guida della Cappella Giulia, da Paolo Agostini a Virgilio Mazzocchi, da Orazio Benevoli a Ercole Bernabei, fino ad Antonio Masini, per avere contezza di quanto le committenze esterne — richiedendo ai succitati maestri la composizione tanto di oratori quanto di melodrammi, di cantate sacre quanto profane — abbiano favorito il formarsi nel XVII secolo di una Scuola romana tout court, in cui i luoghi deputati alla fruizione della musica, lungi dall’essere compartimenti stagni, erano organismi comunicanti e dunque soggetti a influssi reciproci.
Nel Settecento la Cappella della Basilica di San Pietro diviene quasi il cuore pulsante di una convivenza tra gli stili secolari e liturgici, annoverando tra i suoi maestri musicisti quali Domenico Scarlatti e successivamente Niccolò Jommelli, nonostante i più o meni celati malcontenti di una parte di mondo musicale sacro restìa alla nomina di due compositori orientati sul versante secolare, soprattutto melodrammatico. Tra i magisteri dei musicisti sopra menzionati, quello di Giuseppe Ottavio Pitoni lambisce vette insuperate per quantità di musiche destinate alla Cappella, composte in tutti gli stili noti all’epoca, dal contrappunto imitativo allo stile concertato e a quello policorale.
Il XIX secolo si apre col magistero di un ormai anziano Pietro Alessandro Guglielmi, a conferma della serie dei compositori prestati dal mondo del melodramma, nonostante le lotte intestine aventi luogo in ogni consesso umano: «Roma in genere non ha mai avuto bisogno dei maestri forestieri» si legge in una involontariamente spassosa lettera anonima, in realtà con molta probabilità vergata da Giuseppe Jannacconi, cantore pontificio e concorrente del sopra citato Guglielmi. Le difficoltà economiche e le tensioni politiche dovute alla breve parentesi della prima Repubblica Romana non interrompono le attività della Cappella Giulia, avvezza ormai a sopravvivere tra la sublimità celestiale di un Miserere o di un Te Deum e la miseria terrena di un’epidemia di peste, delle inondazioni e degli episodi bellici; e il suo assetto parve seriamente vacillare durante il turbolento magistero di Nicolò Zingarelli (1805-1812), segnato dall’annessione dello Stato pontificio alla Francia napoleonica e dalla creazione di un’unica Cappella Imperiale sintesi delle quattro patriarcali romane (Papale, Giulia, Lateranense, Liberiana). Tale volontà governativa costò il carcere agli oppositori, primo fra tutti il celebre maestro napoletano. Fino alle sue formali dimissioni del 1816, il ruolo di Zingarelli assente per motivi politici fu finalmente ricoperto ad interim dal solido contrappuntista Jannacconi, «uno dei più interessanti sostenitori dello stile alla Palestrina», il cui breve magistero cedeva il posto infine a quello ultraventennale di un altro operista napoletano, Valentino Fioravanti, e quindi sino al 1850 a quello del «compositore fecondo» Francesco Basilj, che per la sua attività di censore del Conservatorio di Milano durante gli anni giovanili di Giuseppe Verdi si vide a lungo attribuita una responsabilità eccessiva nel celebre episodio della non ammissione del giovane bussetano all’istituzione scolastica.
Emerge la storia negli archivi della Basilica e il puntuale Rostirolla ne registra scrupolosamente gli echi: in un’Italia percorsa da fermenti rivoluzionari «stava proseguendo da parte della Chiesa di Roma una vera e propria restaurazione della musica sacra», che trovò nel brevissimo magistero di Pietro Raimondi l’equilibrio stilistico dato dalla padronanza assoluta del contrappunto in un contesto in generale conservatore che lo pose «nel genere sacro tra gli ultimi rappresentanti del classicismo musicale». Degno erede del Raimondi ed esponente del Cecilianesimo, movimento di riforma nato in Europa e mirante a rinfocolare nella musica sacra le più solenni e nobili lezioni del passato, Salvatore Meluzzi guidò la Cappella Giulia quasi sino alla fine dell’Ottocento, fino a cedere il magistero al figlio Andrea che avrebbe traghettato l’istituzione nel nuovo secolo. Decenni di notevoli mutamenti, quelli attraversati dai Meluzzi, in cui la Storia che inevitabilmente fa capolino con i suoi eserciti e le guerre registrate dai diaristi pontifici si intreccia con la nascente storiografia musicale e le prime iniziative editoriali-musicologiche, di cui Salvatore Meluzzi fu un sensibile anticipatore, avendo nell’archivio della Cappella «uno dei più importanti “giacimenti musicali” allora esistenti».
La prima metà del Novecento è caratterizzata dal crescente interesse da parte di studiosi alla consultazione del patrimonio polifonico delle «mitiche fonti Vaticane», dalla nascita di società corali e strumentali volte a far conoscere al pubblico i capolavori del passato. Tutto questo avveniva tra le due guerre, in anni di grave crisi economica ma anche di una nuova presa di coscienza da parte dei cantori e pian piano le suppliche al Capitolo e le richieste di sussidi lasciarono il posto alla definizione di diritti assistenziali e pensionistici, così come la consueta “strenna natalizia” dovette cedere dinanzi alle richieste della tredicesima.
Era sempre la storia a penetrare nell’istituzione musicale, in questo monumento mutevole e costantemente in divenire, non monade isolata ma al contrario microcosmo umano calato nel suo tempo. Due grandi personalità musicali alla guida della Cappella nel periodo tra le guerre mondiali e in quello critico della crisi postbellica, Ernesto Boezi sino al 1946 e Armando Antonelli sino al 1960, condussero indenne la “fabbrica” musicale attraverso quegli anni favolosi di indigenza, di frequente penuria di cantori, ma anche di costante valorizzazione dello scrigno della biblioteca-archivio musicale, e di novità quali le prime incisioni discografiche a partire dagli anni Cinquanta.
Durante il ventennio successivo, sotto il magistero di Armando Renzi, vincitore del tradizionale concorso grazie alla sua «magistrale sapienza tecnica nel trattamento delle voci» e protagonista assoluto del Novecento musicale sacro, i venti irresistibili della storia ormai contemporanea spingono ancora per stravolgere sin nel profondo l’istituzione musicale di San Pietro, imprimendo forze opposte e centrifughe di «nuova energia vitale» da un lato, ma anche di difficoltà organizzative ed economiche tali tra i cantori da portare alla «dolorosa sospensione del giugno 1979» e alle dimissioni del maestro Renzi. Simile all’araba fenice, «l’Istituzione “giuliana” si riteneva pur sempre insopprimibile» in quanto solo una Bolla pontificia avrebbe potuto decretarne la fine istituzionale: continuò pertanto a operare con la denominazione provvisoria di “Cappella Musicale di San Pietro” diretta dal mastro don Pablo Colino, tra i massimi esperti della coralità sacra e della pedagogia vocale. Nel maggio del 2008, a seguito delle avvenute profonde ristrutturazioni amministrative e logistiche e sotto la guida musicale del canadese Padre Pierre Paul omv, viene ripristinato il nome originario dell’organismo corale, che torna quindi in possesso della sua secolare storia. Storia che ci affascina, perché questi capitoli finali ci rivelano irresistibilmente come nostra, grazie alla scrittura di Rostirolla che riesce nel magico intento di intrecciare le dettagliate appendici documentarie poste a chiusura di ogni capitolo con stralci epistolari e cronachistici dai quali emerge il respiro terreno, il lato più umano delle fonti, di un’umanità che giubila al Signore mentre è percorsa da invidie, pregiudizi e scontri con l’autorità come avviene in ogni consesso di uomini.
di Tiziana Affortunato