La multiforme meccanica comunicativa di Jean Cocteau

Tracce di genio disseminate ovunque

Jean Cocteau nel 1923
04 luglio 2020

Parlare di Jean Cocteau è impresa ardua, affascinante, a volte impossibile. Impossibile come pretendere di guardare un cristallo a facce curve, con uno sguardo solo e senza girarci attorno.

La meccanica comunicativa di Cocteau muove contemporaneamente in direzioni diverse, con un’agilità impressionante, con una necessità espressiva infaticabile e multiforme.

La sua vita incrocia una folla di personaggi, che sono anche un’epoca della vita intellettuale europea.

Ne Il mio primo viaggio, Cocteau ci regala il racconto di un incontro casuale col coetaneo Charlie Chaplin, che dice molto della più importante maschera del XX secolo, e molto anche di sé: «È a bordo. La notizia mi sconvolge — scrive — io non parlo inglese. Chaplin non parla francese. Eppure parliamo senza il minimo sforzo. Che cosa succede? Che lingua è la nostra? È la lingua viva, la più viva di tutte, che nasce dalla volontà di comunicare a ogni costo; la lingua dei mimi, la lingua dei poeti, la lingua del cuore».

È proprio questa volontà di «comunicare ad ogni costo» a portarlo quasi verso ogni forma d’arte: la poesia, il romanzo, il teatro, il cinema, la pittura, il disegno.

Sa combinare, come un vecchio alchimista arabo, elementi di tutte le avanguardie, senza giurare fedeltà o adesione a nessuna di esse, sebbene sia il surrealismo la principale valvola di sfogo degli intellettuali della sua epoca. Cocteau, in un certo senso, non fa eccezione. La fantasia sonnambolica, il sogno, Freud, Jung, l’inconscio sono anche per lui viatico dell’«uomo più uomo».

Ma la sua relazione con l’avanguardia rimane «adulterina» e spesso poco riconosciuta, soprattutto da parte di Andrè Breton, padre nobile dei surrealisti, che giudica addirittura «pessima» la sua poesia. Del resto, è del tutto normale che un artista così complesso susciti pareri altrettanto complessi e variegati.

Tracce di Jean Cocteau, in Francia, si trovano più o meno ovunque. Se andate a Maissons-Laffitte, dove nacque nel 1889 — lo stesso anno della peste di Russia e della Seconda internazionale — troverete un effluvio di targhe. Maison natale di Jean Cocteau: targa. Collège Cocteau: targa. École Jean Cocteau: targa. Se andate alle cappelle di Saint-Pierre a Villefranche-sur-mer potrete ammirare una serie di episodi dedicati alla vita di san Pietro, affrescati proprio da lui. E se andate a Saint-Blaise-des-Simples a Milly-la-Forêt, dove morì nel 1963, vi perderete tra le viti, le lance e gli angeli affrescati da Cocteau.

Ma troverete tracce di lui anche all’Académie Française del gesuita Richelieu: Cocteau è entrato nella schiera degli «immortali» dell’Accademia. E ancora non basta: nel 1928 scrive persino un’opera oratorio intitolata Oedipus Rex, per le musiche di Igor Stravinskij — di cui è uno degli scopritori — la cui traduzione in latino viene curata dal gesuita e teologo, Jean Daniélou.

E disseminate alla Cinémathèque Française, a Parigi, troverete altre tracce del suo genio esuberante: con Le sang d’un poète (1930) si fa cantore e interprete della seconda avanguardia, lavorando a quattro mani con M. J. Arnaud; L'’ternel retour (1943) con J. Delannoy, sino alla sua opera cinematografica più apprezzata e raffinata La belle et la bête (1946), considerata una «perla barocca», e che si avvale di R. Clément come assistente alla regia.

Insomma, Cocteau è un arlecchino, come direbbe lui se fosse ancora tra noi, o, forse, un Petit Poucet, come direi io, che sparpaglia segni della sua arte come coriandoli, senza curarsi della direzione del vento, e che, con la stessa, estrosa curiosità, salta dagli oppiacei, alla riflessione dotta, dal balletto, all’arte sacra, dal vitalismo parigino d’inizio secolo alla contemplazione nelle piccole chiese sparse nella campagna francese.

Pare assurdo che il Cocteau de I ragazzi terribili del 1929 sia lo stesso Cocteau delle Lettre à Jacques Maritain, del 1926. Solo un buontempone potrebbe pensare d’accostare due figure tanto diverse: il teologo di bocca fina e l’artista scapigliato. Il primo dimora in un atteggiamento teoretico, volto a conoscere «la stabilità dell’essere e l’ordine dell’immutabile». Il secondo è sempre all’effervescente ricerca di sensazioni nuove e di esperienze sconosciute. Eppure i due annodano un’amicizia durata quarant’anni, dal 1923 (anno in cui Cocteau si converte alla fede cattolica dopo la morte del compagno Radiguet) sino alla morte del poeta, e che affiora nello stupore generale quando Gallimard, nel 1993, decide di pubblicare la loro Correspondance, 1923-1963. Ed è, per chi vi si accosti, uno scambio di rara qualità: delicato, corretto, sincero, intreccia con cordiale grazia le grandi questioni della filosofia, dell’arte, della religione, della preghiera. Non sono due menti che ragionano, ma due anime che danzano su brani diversi, e che pure sembrano non andare mai fuori ritmo. Sono gli anni in cui la casa dei Maritain, a Meudon, diviene cenacolo di un rilancio del cristianesimo nella cultura e le sue stanze sono sempre affollate d’artisti: Rouault, Severini, Chagall e appunto Cocteau.

Maritain e Cocteau hanno idee diverse sulla vita e sull’arte. Eppure mai il disaccordo, spesso acutissimo, su temi come l’omosessualità e l’etica dell’artista, si trasformano in vera e propria inimicizia. Cocteau è convinto che l’artista goda di uno statuto etico speciale, che sia al di sopra degli altri mortali; che l’amore delle creature sia espressione e immagine dell’amore di Dio, in tutte le sue sfumature e sempre. Maritain lo mette continuamente in guardia dal fantasma della morte di Radiguet, considera l’amore di Dio la più dolce esperienza d’ogni creatura e lo invita a desistere da quello che considera un vizio disordinato. Lo prega di rinunciare all’intento di pubblicare il suo Le livre blanc, una sorta di autobiografia erotica delle sue esperienze sessuali. Gli chiede di attendere, di rifletterci meglio, senza successo. Tra i due si crea un muro di incomprensione che sarebbe insuperabile per molti, non per loro. Ciascuno dei due trova nel giardino interiore dell’amico il fiore della bontà e lo coltiva senza preoccuparsi delle spine che avvolgono il gambo. Lo coltiva sino all’ultimo giorno. Amici, fratelli, in disaccordo costante. L’amicizia come forma luminosa di quell’«essere sempre» che non conosce la sera.

di Roberto Rosano