A settembre sarà pubblicato «Gec dell’avventura», un racconto inedito di Silvio D’Arzo

Storie di vecchi e nuovi pirati

Silvio D’Arzo pseudonimo di Ezio Comparoni
24 luglio 2020

«All’improvviso dal sentiero dei pascoli, ma ancora molto lontano, arrivò l’abbaiare di un cane.

Tutti alzammo la testa.

E poi di due o di tre cani. E poi il rumore dei campanacci di bronzo.

Chini attorno al saccone di foglie, al lume della candela, c’eravamo io, due o tre donne di casa, e più in là qualche vecchia del borgo. Mai assistito a una lezione di anatomia? La stessa cosa per noi in certo senso».

È l’inconfondibile inizio di  Casa d’altri  di Silvio D’Arzo, alias Ezio Comparoni, figlio illegittimo, morto cento anni fa a Reggio Emilia a soli trentadue anni a causa di una brutta leucemia. Prosa? Sì, ma lo scrittore, in queste folgoranti cinquanta pagine, va a capo come se fosse poesia. In più apprezziamo un ritmo, un senso plastico della frase, allusioni e metafore, senza perdere di vista la narrazione: quella che in altre epoche si definiva “una voce”. Raro trovarne di altrettanto autentiche nel panorama letterario novecentesco.

La scena inaugurale può ricordare il celebre dipinto di Rembrandt, tuttavia il protagonista è un parroco non più giovane di un paesino dell’Appennino tosco-emiliano. Una sera, sul finire d’ottobre, riceverà la richiesta, a dir poco inquietante, da parte di un’anziana lavandaia, Zelinda Icci fu Primo: il permesso di potersi suicidare. Attenzione: senza commettere peccato! Per questo, nella mente e nel cuore della povera donna che vive da sola, fatta eccezione della capra, l’unica a tenerle compagnia quando si china a fare il bucato sul greto del ruscello ai margini del villaggio, è necessaria una dispensa eccezionale che solo un prete potrebbe darle. Il sacerdote resta di sasso, sbalordito e interdetto, come se mai e poi mai avesse potuto immaginare che un quesito semplice semplice simile a quello posto dalla parrocchiana tornasse a riproporgli le antiche grandi questioni di fede affrontate tanti anni prima al seminario quando, in virtù della sua proverbiale puntigliosità e sottigliezza, i compagni lo avevano soprannominato  Doctor ironicus.  Altri tempi, a quanto pare irrimediabilmente perduti. Ora, disperso lassù fra quattro case e qualche anima, s’illudeva di aver tirato i remi in barca, in modo da potersi riposare tranquillo in attesa che il buon Dio venisse a chiamarlo.

Al contrario, in pratica una sua coetanea, con ogni probabilità amaramente disillusa, se non proprio disperata, lo convoca a rapporto con sincerità disarmante. Chissà che fantasmi del passato la tormentano. Cosa risponderle? Quale parole usare? Come aiutarla? Ne deriva «una tragedia teologica», come la definì una volta Giorgio Manganelli, fra i tanti autorevoli lettori darziani, che, a prima vista, potrebbe far pensare a Georges Bernanos o, nel nostro piccolo, Nicola Lisi. Senonché, basta avanzare un poco nella storia per ascoltare una musica diversa che richiama, più centralmente, la letteratura del ventesimo secolo con la quale il giovane Ezio si confrontava da pari a pari, a testa alta.

Si stenta a credere che questo capolavoro, da Eugenio Montale ritenuto perfetto, sia stato concepito e composto da uno scrittore così giovane, quasi un ragazzo, eppure già consapevole della tradizione alle sue spalle, dal talento precocissimo e originale, al punto di averci consegnato straordinari saggi sui suoi veri maestri, da Henry James a Joseph Conrad, dal colonnello Lawrence a Robert Louis Stevenson, per citarne soltanto alcuni, nonché altre memorabili opere, fra le quali spiccano, per potenza rappresentativa, i racconti originalmente destinati ai ragazzi, in realtà rivolti a tutti:  Penny Wirton e sua madre  in primo luogo, esito di livello assoluto, ma anche  Tobby in prigione  e  Il pinguino senza frac,  deliziosi cammei.  Un campo espressivo dove Silvio D’Arzo, il più resistente fra i numerosi pseudonimi adottati, forse per sfuggire alla profonda ferita interiore causata dall’assenza paterna, poteva realizzare appieno la sua doppia vocazione realistica e lirica, abitando da sovrano incontrastato quella terra di nessuno, a lui invece così congeniale, fra “cronaca” e “arcadia”, per usare i termini che lo resero famoso, pronti a segnalare gli opposti rischi del romanzo italiano: documentarismo fine a se stesso e fumosa fantasticheria.

Proprio in questo speciale versante dobbiamo segnalare un’importante novità editoriale: il 22  settembre  verrà pubblicato da Einaudi, a cura di Alberto Sebastiani,  Gec dell’avventura, il manoscritto inedito finalmente reso accessibile, un testo base composto dallo scrittore emiliano dal 1944 al 1946, all’indomani del suo ritorno a casa dopo le traversie militari successive all’armistizio.

Si tratta di un lungo racconto di pirati d’impronta stevensoniana, e non solo, avvincente e carico di suggestioni narrative e visive, che venne lasciato incompiuto e sospeso da Comparoni, sempre disponibile a intraprendere nuove imprese, di cui l’editore torinese mi ha chiesto di scrivere il finale.

E così ho fatto, anche quale forma di estremo omaggio nei confronti di un autore a cui sin da giovane mi sono sentito legato, dalla tesi di laurea in lettere che gli dedicai alla metà degli anni Settanta del secolo scorso fino alla scuola Penny Wirton per l’insegnamento gratuito della lingua italiana agli immigrati che io e mia moglie Anna Luce Lenzi, storica studiosa darziana, abbiamo fondato per evocarlo. Oggi  Gec si chiama Mohamed e Penny è diventato Hafiz. Ma i pirati, sebbene sotto mentite spoglie, come spietati trafficanti di esseri umani, purtroppo esistono ancora. E fanno ben più paura dei briganti senza un occhio, simpatici persino ai bambini, che allietarono la vita troppo breve di Ezio Comparoni.

di Eraldo Affinati