Colloquio con l’arcivescovo di Lima sull’impegno della Chiesa in Perú contro la pandemia

Solidarietà e creatività

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28 luglio 2020

In Perú una festa nazionale all’insegna della vicinanza ai più sofferenti. La pandemia ha stravolto il programma: alcune iniziative sono sospese, mentre le chiese sono chiuse e quindi la messa del 28 luglio (festa dell’Indipendenza), nella cattedrale di Lima viene trasmessa online e in tv. Il numero dei contagi attivi da covid-19 è sceso sotto quota 100.000 e il bilancio dei nuovi casi cresce a un ritmo sempre più lento, ma con segnali contrastanti. Il Paese è il settimo al mondo per numero di infetti e il terzo in America Latina: 385.000 persone hanno contratto il virus e oltre 18.000 sono decedute. La regione più colpita è quella della capitale Lima, ma preoccupa anche la situazione nell’Amazzonia peruviana. «Gli indigeni non hanno protezioni contro il coronavirus, che potrebbe causare una grave riduzione della popolazione», ha dichiarato a «L’Osservatore Romano» l’arcivescovo di Lima, Carlos Gustavo Castillo Mattasoglio. «Loro sono una garanzia di conoscenze antiche per la cura della foresta che allo stesso tempo è fondamentale per l’umanità».

L’area amazzonica peruviana occupa oltre la metà del territorio nazionale. Il virus è arrivato fin qui attraverso persone giunte nella foresta per offrire aiuto. «In tutta l’Amazzonia c’è questo grave problema», afferma il presule che racconta con dolore la storia di Santiago Manuin Valera, capo della comunità indigena awajun morto a 63 anni per coronavirus nell’ospedale di Chiclayo, città dove era stato trasportato per essere curato. «Era un bravo dirigente, awajun e cattolico. Di lui si pubblicheranno anche le meditazioni sui Vangeli», ha aggiunto. Insieme ad altri vescovi ha ottenuto dal governo il permesso di far rientrare la salma per celebrare il funerale con la sua comunità.

La sua morte è emblematica di quanto il covid-19 costituisca un pericolo per gli indios e dell’impegno della Chiesa locale nei loro confronti. A Iquitos, città di 380.000 abitanti e centro strategico situato nel cuore dell’Amazzonia, mancavano bombole d’ossigeno. Grazie a una campagna di solidarietà avviata dal vicariato apostolico verrà costruita una fabbrica per produrle. Intanto, gli Emirati Arabi Uniti a giugno ne hanno inviato 40 tonnellate insieme a prodotti alimentari. «Questo sarà molto d’aiuto per le popolazioni della foresta — continua Castillo Mattasoglio — perché in genere le comunità indigene che vivono lungo i fiumi non sono protette dal virus».

Il pericolo maggiore è che si ripresenti la situazione affrontata nel XVI secolo durante la colonizzazione spagnola: nel giro di sessanta anni otto dei dieci milioni di nativi morirono a causa del vaiolo e del morbillo. «Quando san Turibio de Mogrovejo arrivò in Perú dovette affrontare le conseguenze dell’epidemia», spiega l’arcivescovo. «Egli andò a cercare i nativi dispersi, chiese quali erano i loro bisogni. Grazie al suo intervento il re iberico riconobbe a tante comunità la proprietà sulle loro terre. Questo ci mostra come fare Chiesa nel dopo pandemia, come ricostruire la vita delle persone e della Chiesa. Credo questa sia la nostra sfida più grande oggi».

La salute dei popoli indigeni è monitorata, ma se qualcuno contrae il covid-19 deve essere trasportato in città per le cure. L’auspicio di monsignor Castillo Mattasoglio è quello di creare “ospedali di campagna”. Per questo i presuli che operano nella foresta peruviana lavorano insieme a tutto l’episcopato per creare un sistema sanitario ospedale-foresta-chiesa che sia unitario. In tutto il Paese gli ospedali pubblici sono in difficoltà, nonostante l’aumentato numero di posti letto in terapia intensiva e l’ampliamento dei locali in diverse strutture. Una situazione di fronte alla quale i guadagni economici impressionanti dei nosocomi privati hanno fatto scandalo. «Le famiglie, per curarsi, in un mese hanno consumato i risparmi accumulati in anni di lavoro», ha sottolineato l’arcivescovo durante un’omelia, aggiungendo che «la medicina orientata al guadagno doveva finire al più presto». Infatti, a fine giugno il governo peruviano e le cliniche private hanno raggiunto un accordo che prevede una riduzione delle tariffe per malati di covid-19. Il presule, presente all’incontro, nel suo intervento ha invocato «la credibilità delle istituzioni che devono porsi a servizio prima che avere finalità economiche personali». Il sistema sanitario nazionale è in difficoltà, spiega, a causa di «problemi pluridecennali di tipo strutturale causati da un sistema economico totalmente disuguale» che vede da una parte pochi grandi ospedali pubblici e dall’altra tante cliniche private con costi elevati.

Le disuguaglianze sono emerse chiaramente anche quando il governo aveva imposto il lockdown e il coprifuoco notturno terminati il 30 giugno. «All’inizio c’era una positiva partecipazione di tutti — racconta il presule — ma col passare dei mesi sono emersi gravi problemi che hanno aumentato il rischio di contagio». Infatti, la maggior parte della popolazione delle grandi città era costretta a uscire di casa per lavorare e garantirsi il sostentamento familiare, ma allo stesso tempo il disagio abitativo obbligava nuclei numerosi a vivere per lungo tempo in appartamenti grandi quanto una stanza. Il governo si è sforzato per superare i problemi strutturali in poco tempo, aiutando più deboli, ma «alla radice di questa situazione c’è uno sviluppo economico a gocce improntato sul guadagno affrettato», continua l’arcivescovo di Lima. «Sono le briciole che cadono dalla tavola del padrone e che vengono raccolte per potersi sostenere, come quelle che mangia Lazzaro nel Vangelo».

Nelle settimane precedenti la riapertura è iniziato un esodo massiccio di lavoratori immigrati dalle grandi città che la pandemia aveva trasformato in posti pericolosi. Dopo aver passato un periodo di quarantena, queste persone hanno fatto rientro nei luoghi di origine. «Le comunità erano allarmate e si sono organizzate costituendo dei gruppi di ronderos, una sorta di polizia popolare che si occupa di presidiare le strade, prevenire i furti e vigilare sui contagi», precisa Castillo Mattasoglio. Ciò è accaduto in alcuni paesi situati nelle zone alte della sierra e della foresta amazzonica che sono stati isolati per sicurezza, con strade sbarrate in entrata e uscita. Oggi il Perú è economicamente sfinito. Per questo le attività economiche hanno quasi tutte riaperto. Molti utilizzano le mascherine, ma adesso che la popolazione può muoversi liberamente è più difficile far rispettare le regole sul distanziamento sociale e tenere una contabilità del contagio affidabile. «Sono pessimista per l’oggi, non vedo alternative immediate, ma nei prossimi mesi i cittadini potrebbero organizzarsi meglio. A ciò vogliamo contribuire col progetto delle parrocchie missionarie e solidali», osserva il presule. «Questa pandemia ha insegnato tante cose: il principio della solidarietà e del bene comune, dei poveri come orizzonte dell’economia, della società, della cultura e della Chiesa. O ne usciamo remando insieme o affondiamo, come dice Papa Francesco.

Il Perú è un Paese cattolico e molto praticante, ma negli ultimi anni anche «nella vita del povero è entrata la cultura individualistica che ha sminuito le relazioni che permettono l’esistenza stessa di una società», nota il primate peruviano. Questo ha determinato una mancanza di organizzazione popolare che ha influito negativamente sulla risposta sociale alla pandemia da covid-19. In quattro mesi di contagio le Caritas e l’esercito hanno portato alimenti alle persone prive di risorse. Il governo ha attivato un reddito minimo universale e una campagna mediatica, sostenuta dall’episcopato, per educare al rispetto delle norme. La Chiesa locale ha garantito la vicinanza virtuale e fisica ai malati e negli ospedali, dove nei giorni più cupi ha celebrato messa e dato l’eucaristia. I sacerdoti hanno organizzato conferenze, celebrato messe e recitato rosari su internet, creato cucine popolari da cui i volontari partivano per consegnare i pasti nelle case. «La Chiesa è diventata un centro di animazione nei quartieri e nella città», conclude l’arcivescovo di Lima. «Non siamo una ong, ma testimonianza della presenza del Signore, il cui Spirito suscita, in una situazione di emergenza, la creatività e la solidarietà umana e sociale». La Chiesa continua a svolgere il uso ruolo evangelizzatore, ma lo fa in modo che il popolo sia più organizzato e più solidale, superando il peccato dell’individualismo. Di fronte alla miseria e alla povertà che dilagano sulla terra, «i poveri del mondo e la natura impoverita e saccheggiata ci chiamano a concretizzare questa speranza».

di Giordano Contu