Storie di viaggio e di viaggiatori nel libro di Sergio D’Addato

Saltando da una città (e da un’epoca) all’altra

L’aeroporto di Daxing a Pechino
22 luglio 2020

L’Inghilterra di Lady Diana, degli Oasis e di Eleanor Rigby. La Francia del Louvre e degli artisti di strada. La Germania del Muro. E poi l’Italia coi suoi paesaggi, le cartoline dalla Spagna, fino al Golden Gate americano. Visti i tempi, viaggiare risulta problematico.

Ma con Cityhoppers. Da una città all’altra (Roma, Aracne editrice, 2020, pagine 112, euro 10) di Sergio D’Addato è possibile andare ovunque. L’autore, classe 1960, professore di fisica all’università di Modena e Reggio Emilia, mette insieme, infatti, dieci brevi racconti ambientati in diversi luoghi del mondo, nonché in differenti epoche. Racconti che, collegati tra loro grazie al cosmopolitismo dei protagonisti, accendono le luci su un’umanità costantemente in viaggio.

Come eravamo? È questa la domanda a cui pare rispondere il volumetto che, oltre a coniare il neologismo del titolo, si getta nella carrellata descrittiva delle vite negli anni Ottanta e Novanta e, alla fine, senza dimenticare la contemporaneità, sceglie anche di (tele) trasportare il lettore nel futuro: il 2040.

Fatta eccezione per questo balzo in avanti (c’è comunque da dire che nel 2040 i personaggi viaggeranno nel tempo e qualcuno sceglierà, guarda caso, il 1973), Cityhoppers osserva prevalentemente il passato, raccontando esistenze poste lontano dalla diffidenza, protese ad accogliere l’altro, lo straniero. Accade al tedesco Horst, il quale ospita in casa propria e senza pensarci due volte la francese in difficoltà Dom, accade all’italiano Edo, aiutato dal vicino irlandese, o a Sasha, che lascia tutto e accompagna a Roma una famiglia vietnamita, e, ancora, a tutti gli altri, uomini e donne, che D’Addato fa incrociare per motivi d’amore, di lavoro o di mera quotidianità.

Ecco, pertanto, che nelle pagine della raccolta emerge, su tutto, la nostalgia dei tempi trascorsi e delle precedenti generazioni: leggendole, traspare una leggera malinconia, che, non a caso, è amplificata dalla menzione di persone realmente esistite, vecchi fatti di cronaca, ricordi e canzoni (nel lungo elenco rientrano, tra le altre, Lotta Love di Neil Young, All Along the Watchtower di Jimi Hendrix, Thinking of You di Sister Sledge, Cowboy Dreams di Prefab Sprout, Love is a Losing Game di Amy Winehouse, A Rainy Night in Soho di The Pogues).

A questo punto vale chiedersi quanto ci sia di autobiografico tra le righe del libro: una curiosità che sorge spontanea in chi legge e che sembra legittima, se non altro perché qualcuno ha detto che l’arte, più che fantasia e rappresentazione, è nostalgia e autobiografia. Lasciando, a ogni modo, da parte l’annosa diatriba sul punto, si può dire, in definitiva, che queste storie dalle nazionalità molteplici conducano verso un univoco flusso di coscienza (lo dimostra pure il linguaggio utilizzato, che all’italiano mescola termini inglesi e appartenenti ad altre lingue).

Un flusso di coscienza che sale sui treni, pedala sulle biciclette, entra ed esce dalle metropolitane e rende protagonista, più dei personaggi e delle città stesse, l’esperienza dell’incontro.

di Enrica Riera