La messe è molta: viaggio nel mondo delle vocazioni/1

Pochi (missionari) ma buoni

Gli albori della presenza missionaria del Pime in Birmania
23 luglio 2020

A colloquio con il rettore del seminario teologico internazionale del Pime di Monza


È il 15 giugno e una pioggia battente insiste su Milano e dintorni, come non bastassero le preoccupazioni ancora presenti per l’emergenza sanitaria. Ma né l’una né l’altra fermano la cerimonia prevista nel giardino del seminario internazionale del Pime (Pontificio istituto missioni estere) di Monza per l’ordinazione di cinque nuovi missionari. È l’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, a presiedere la celebrazione, anche scherzando un po’ sulla giornata piovosa («Con questa benedizione così ampia sarete i preti della sovrabbondanza»), prima di imporre le mani sul capo di Mauro Pazzi, Ivan Straface, Fel Catan, Nathi Lobi e Sravan Kumar Koya. Come si evince dai nomi, ci sono dunque anche due italiani tra i novelli religiosi e la sottolineatura non è da poco, perché per anni l’Italia non ha dato vocazioni all’istituto e la tendenza rischia di riprendere nelle prossime stagioni, come diremo meglio tra poco, per una realtà vocazionale difficile per ciò che è stato il primo istituto missionario fondato in Italia.

Ma intanto, al Pime, si “coccolano” Mauro e Ivan: il primo è nato a Torino ed è cresciuto sull’Appennino tosco-emiliano, tra Vergato e Marzabotto. Entrato nel Pontificio istituto missioni estere nel 2015, a 38 anni, dopo un’esperienza di lavoro, tanto volontariato e una passione per gli studi di teologia, adesso andrà nella missione in Messico. Il secondo è invece originario di Busto Arsizio e nel 2014 è entrato nel seminario del Pime attraverso «Giovani e Missione», il cammino che propone ai giovani di vivere un mese in una missione dell’organismo: «Sono andato in Guinea Bissau e sono tornato a casa avendo capito che la missione in qualche modo doveva fare parte della mia vita». Per il momento resterà in Italia, destinato al servizio dell’animazione missionaria.

Accanto a loro, Fel Catan, proveniente dalle Filippine e cresciuto in una famiglia ad alta vocazione missionaria, visto che questa strada è stata scelta anche da un fratello, una sorella e uno zio di Fel, peraltro primo religioso del Pime nelle Filippine. E una sorta di primogenitura geografica può vantare anche Nathi Lobi, thailandese, primo missionario del Pime proveniente dagli Akha, una popolazione tribale insieme alla quale tanti missionari dell’istituto hanno vissuto in questi anni. Arriva invece dallo stato indiano di Telangana Sravan Kumar Koya, originario di Bhimanapalli, altra parrocchia dove lavorano i missionari del Pime. Tutti e cinque hanno terminato la preparazione al sacerdozio proprio durante il lockdown, i cui strascichi hanno impedito, come di solito avviene, che il Pontificio istituto missioni estere ordinasse i propri religiosi assieme a tutti gli altri sacerdoti dell’arcidiocesi di Milano.

Eppure quel 15 giugno non è stata una data casuale, ma il giorno della festa liturgica del beato Clemente Vismara, missionario del Pime originario della brianzola Agrate, che ha vissuto per quasi settant’anni nell’allora Birmania (oggi Myanmar) e morto nel 1988. Così come assolutamente non casuale è stato il luogo scelto per la cerimonia, ovvero quel grande seminario di Monza dove da decenni si preparano i futuri missionari. E proprio al “concetto” di seminario in qualche modo è legata anche la prima parte della splendida storia del Pime, che non sempre si è chiamato così. Nel 1926, infatti, per volontà di Papa Pio XI, confluirono in un unico organismo (il Pime per l’appunto) due preesistenti “Seminari per le missioni estere”: il primo era sorto a Saronno nel 1850, il secondo a Roma nel 1871. Ma il carisma fu subito chiaro: andare e lavorare in missione e nei paesi più disparati del globo, oggi con lo sguardo fermo al decreto conciliare Ad gentes, per portare l’annuncio del Vangelo ai non cristiani.

Oggi sono presenti in Algeria, Bangladesh, Brasile, Cambogia, Camerun, Cina, Costa d’Avorio, Filippine, Giappone, Guinea Bissau, India, Italia, Papua Nuova Guinea, Thailandia e Stati Uniti i missionari che nel frattempo hanno scelto Monza come casa di formazione. E proprio a Monza troviamo padre Luigi Bonalumi, rettore del Seminario teologico internazionale del Pime, per iniziare a parlare, dopo questa lunga premessa, di pastorale vocazionale: «Qui ospitiamo gli studenti per i quattro anni del teologico, mentre per le filosofie, due o tre anni, studiano nei paesi di provenienza, nei vari continenti dove siamo presenti. Attualmente qui abbiamo una sessantina di studenti, provenienti da dodici nazioni. Italiani? Si contano sulle dita di una mano, perché ormai questa è la realtà. Quest’anno ne abbiamo ordinati due, l’anno scorso lo stesso, ma per tanti anni nessuno. E ora in seminario ce ne sono solamente un paio e poi vedremo. Il motivo? Credo riguardi un po’ più in generale la questione della Chiesa italiana in rapporto alle vocazioni. Ci sono fattori importanti come quello demografico, ma è anche una questione di fede. Se diminuiscono le vocazioni diocesane al presbiterato, quelle missionarie sono ancora più in difficoltà, sono ancora di meno. Ed è questo quello che dà il segnale di una certa crisi, in maniera preoccupante, laddove l’aumento delle vocazioni missionarie è invece indice di una Chiesa vivace, vogliosa di comunicare il messaggio evangelico».

Un “messaggio missionario” che — rispetto alla grande esperienza di padre Luigi che per trent’anni lo è stato a Hong Kong prima di rientrare in Italia da due — forse è venuto meno, comprese le famose “giornate” quando il missionario dalla lunga barba bianca arrivava nelle parrocchie e incantava i ragazzini del catechismo parlando di posti lontani e inaccessibili, del sacro ardore di portare Gesù tra gente che non ne sapeva nulla, sfidando anche pericoli di ogni genere, leoni e serpenti velenosi compresi, magari anche tribù di cannibali. «Sono cambiate le situazioni», argomenta padre Bonalumi, «e certamente molte attività pastorali del passato non sono più proponibili, proprio perché più in generale è cambiata la situazione della Chiesa, così come quella dei giovani in Italia. E anche questo incide. Lo zelo missionario, come si diceva una volta, il desiderio di comunicare un dono che si è ricevuto: è questo che sta venendo meno».

Di conseguenza immaginiamo che anche la pastorale vocazionale di un istituto missionario come il Pime debba adeguarsi, torniamo a chiedere al rettore del seminario di Monza: «Certo, la pastorale vocazionale è cambiata negli ultimi anni e sta ancora cambiando, con una ricerca continua di interagire con i giovani. In passato si puntava sul comunicare un messaggio per comunicare un’esperienza, ma adesso i giovani si raggiungono non solo attraverso il “sentire”, ma anche attraverso il “vedere”, lo sperimentare. È una comunicazione che mette in gioco molti altri aspetti della vita del giovane e, tra questi, il mondo digitale è senz’altro importante. La pastorale vocazionale e di animazione missionaria che facciamo in Italia è legata a quelli che chiamiamo “cammini” in missione: sono due anni per giovani dai 18 ai 30 anni o per gli universitari, dove si propongono non solo dei week end ma anche esperienze missionarie vere e proprio durante l’estate; va avanti da anni, ha dato i suoi frutti e continua a essere importante. Ma adesso questo periodo del lockdown ci ha fatto sperimentare altri strumenti: video-conferenze attraverso i social per riuscire a mantenere contatti e legami, anche se poi i giovani hanno sempre bisogno della presenza fisica, di amicizie e rapporti veri e importanti».

Le nuove sfide sono dunque al centro anche di una realtà storica come il Pontificio istituto missioni estere: «Di per sé — riprende padre Luigi — la nostra pastorale vocazionale è una continua ricerca. Quest’anno abbiamo rinnovato il Centro missionario di Milano, anche con l’idea di raggiungere non solo i giovani interessati alla missione ma anche gli universitari in genere e il mondo del volontariato; siamo interessati a intercettare questi contesti e a comunicare loro la bellezza dell’esperienza evangelica. Teniamo anche conto del fatto che molti giovani hanno bisogno proprio di fare un’esperienza religiosa, un’esperienza che riguardi Dio, prima di parlare eventualmente di qualsiasi vocazione. È proprio l’esperienza di quel dono che è Gesù Cristo che poi fa sorgere il desiderio di condividerlo con gli altri. Cambiano le situazioni, le circostanze, ma il cuore della vocazione, sia missionaria sia presbiterale, rimane lo stesso. Ed è questa la sfida: il far fare l’esperienza di Dio a questi giovani che magari non l’hanno mai fatta o l’hanno soltanto intuita».

A Bonalumi piace molto anche quella nuova sfida dell’ospedale da campo così cara a Papa Francesco «perché la viviamo tutti i giorni, in tutte le situazioni in cui siamo presenti, laddove ci sono marginalità sociali nelle terre di missione, ma anche qui in Italia. E dunque diventa necessaria una proposta a tutti i giovani e in tutti i campi, non solo quelli che tradizionalmente passano attraverso l’esperienza delle parrocchie, ma laddove i giovani si trovano: università, volontariato, luoghi di ritrovo. Anche questo lockdown — sottolinea padre Luigi riprendendo il concetto — cambierà qualcosa, perché tre mesi di un’esperienza così hanno senz’altro toccato il cuore dei giovani. E allora bisognerà intercettare anche queste domande che stanno sorgendo, compresa la voglia di ritrovarsi. C’è del positivo anche in questo momento negativo, se lo si guarda con gli occhi della Resurrezione. Io è da poco che sono qui a Monza, ma incontrando tanti giovani, soprattutto quelli di area italiana e occidentale e anche americana, trovo storie di chi ha incontrato il messaggio evangelico in età che definirei “di giovani maturi”. Spesso hanno già percorso altre strade, hanno avuto successo con il lavoro, sono stati vicini al matrimonio o comunque hanno fatto esperienze affettive importanti, ma poi è nata l’esigenza dell’esperienza religiosa, con la presenza di Cristo che pian pianino ha fatto nascere questo desiderio della consacrazione a vita per il Vangelo. Questa è una costante, anche in giovani che hanno rimandato quella decisione di consacrarsi che già da adolescenti avevano intuito come la possibilità di una vita, che l’hanno messa un po’ da parte ma che è ritornata poi con forza verso i 30 anni».

Vocazioni più mature e dunque più “sicure”? «Questo è difficile dirlo; sicuramente più mature perché maturate in ambienti non classici, come a esempio quello dei seminari minori che pure avevano il loro significato. Ora ci sono questi giovani adulti che si propongono, si interrogano e bussano al seminario chiedendo di fare un cammino di discernimento, di impegnare la loro vita. E questo diventa sempre più vero». Così conclude padre Bonalumi che ai missionari in partenza è pronto a raccontare la sua di esperienza, con i trent’anni trascorsi in varie parrocchie di Hong Kong: «Sono arrivato nell’89 e sono venuto via due anni fa. Laggiù abbiamo una comunità numerosa, con una trentina di religiosi; è una delle missioni classiche del Pime, dove arrivammo nel 1858. La mia esperienza lì? È stata molto arricchente>. Come la storia di ogni vocazione.

di Igor Traboni