Nel libro «Il gesto sacro. Una conversazione con Mario Botta» di Beatrice Basile e Sergio Massironi

Per riconciliarsi con la modernità

Jorn Utzon, chiesa di Bagsværd, Copenaghen, Danimarca, 1973-1976
18 luglio 2020

Tre giovani, un prete filosofo e un maestro dell’architettura; che non fanno l’inizio di una storiella umoristica, ma l’insolita compagine da cui nasce un bel libro/conversazione pubblicato da Electa e incentrato sul lavoro, ormai divenuto antologia, di Mario Botta.

Anche il titolo è bello. Il gesto sacro. Una conversazione con Mario Botta. (Milano, 2020, pagine 124, euro 20) distoglie subito il discorso sull’architettura dalle sue vane deviazioni intellettualoidi e lo riporta fin dall’inizio alla sua permanente parentela con gli atti fondativi della condizione umana. Il mondo sorge veramente dove il nostro corpo/casa ha bisogno di posizionarsi sotto il cielo attraverso una casa/corpo. Può sembrare un’astrusità decostruzionista. Eppure nulla è più vicino ai ricordi che ciascuno può avere.

Da bambini abbiamo tutti fatto la casa sotto il tavolo, una caverna per il divertimento delle ore felici, ma anche un modo per addomesticare uno spazio ancora troppo grande per il nostro corpicino infante. Ci sembrava semplicemente un gioco. Eravamo ignari di rinnovare nel piccolo della nostra esistenza nascente il gesto che l’uomo compie, fin da quando sta sulle due gambe, per dare proporzioni vivibili allo spazio smisurato in cui rischia di perdersi. Si traccia un segno, si posa una pietra, si delimita un’area, si eleva un tetto. Si pongono «gesti» che sono «sacri» prima ancora di riferirsi a qualche dio o di innalzare qualche tempio: perché fondano la nostra posizione nell’indifferenziato dell’essere e, delimitando il nostro «qui», celebrano il nostro timore verso il suo «altrove». Già da bambini, senza sapere nulla di Eliade e di Heidegger, siamo stati tutti ripetitori di questo impulso specificamente umano. Grandi architetti lo si può diventare, perché in qualche misura lo si è sempre già stati.

Sergio Massironi, il prete filosofo, e Beatrice Basile, studentessa al Politecnico di Milano, conversano (più che intervistare) con Mario Botta, che architetto di rilevanza planetaria lo è davvero diventato, mentre Alessandro Nanni, fotografo, e Riccardo Cavallaro, grafico, arricchiscono il volume con una serie di scatti sul «Botta sacro» e un layout dall’ariosità che certamente merita la gratitudine del lettore.

Il testo scorre costellato dai disegni di studio che Mario Botta ha concesso alla pubblicazione e, rinunciando al convenzionale apparato delle opere riprodotte in fotografia, conferma l’idea di un primato del «gesto» che guida l’intero corso del libro e onora quella predilezione per la matita di cui l’architetto fa aperta professione: «La matita non è solo uno strumento per il disegno, mi aiuta a pensare, a comprendere un problema».

Ne viene un format concepito come un dialogo non solo di voci che si alternano, ma anche di immagini che si intrecciano, evitando la noia del solito libro a trattato sull’architettura sacra che accanto a immagini da cartolina fa scorrere discorsi ormai dominati da un gergo prevedibile. Tutta questa materia, in cui l’apporto iconografico colloquia continuamente con il progredire della conversazione, si dispone in una sorta di trittico, che mettendo al centro il grande corpo dell’intervista/dialogo, la fa precedere da un «alfabeto visivo» in cui compaiono immagini storiche dei maestri che Botta considera veri ispiratori del suo lavoro e la fa seguire da un «alfabeto costruttivo» in cui vengono enumerati i «fondamentali» dell’architettura.

Nella piccola antologia che compone l’originale introito di un alfabeto visivo trovano posto, secondo una selezione che appare fruttuosa proprio perché severa, solo dodici «maestri» (nell’ordine, Oscar Niemeyer, Rudolf Schwarz, Le Corbusier, Eero Saarinen, Luis Kahn, Carlo Scarpa, Aldo Van Eyck, Eladio Dieste, Jorn Utzon, Alvar Aalto, Tadao Ando, Hans van der Laan), «a prescindere dai quali» — scrive Beatrice Basile nell’introduzione — «non comprenderemmo Mario Botta, né l’affermazione del suo approccio al gesto sacro del costruire».

Lasciando al lettore il piacere di addentrarsi personalmente nello spirito di questi “dodici apostoli” di una via seria per l’architettura sacra, si può anticipare l’impressione che essi abbiano in comune quel rigore costruttivo che la storia del “movimento moderno” ha imparentato così perfettamente a un desiderio di riforma spirituale che in qualche momento il cattolicesimo conciliare, prima e dopo il suo effettivo evento sinodale, ha saputo realmente intravvedere. Anche solo una galleria limitata a questi pochi esempi, può mostrare con quale continuità una tale sintesi costruttivo/spirituale sia riuscita a ripresentarsi, con rinnovate prove di una medesima eloquenza, dagli anni Quaranta fino alla fine degli anni Ottanta.

Il lavoro di Mario Botta ha messo i piedi sulle orme di questo cammino mai interrotto. Da quelle lezioni egli ha tratto anche la capacità di intrattenersi col passato e le sue memorie nel modo più virtuoso possibile, senza farne né un vincolo mimetico né un parricidio metodico. Cita in proposito Carlo Scarpa quando dice che «l’unico modo per rispettare l’antico è quello di essere autenticamente moderni».

Il cuore del libro — che consiste della conversazione a tre fra Mario Botta, Beatrice Basile e Sergio Massironi — assume talvolta i tratti di una chiacchierata sotto i salici, dove anche i riferimenti tecnici e le citazioni dotte si adattano al tono lieve dello scambio di opinioni, con la sua lingua semplice, i suoi pensieri immediati, la prosa senza pretese di persone che vogliono capirsi. Non troppo misteriosamente il contenuto resta sempre alto, denso, concentrato e rivelativo, come quando liberati dal peso della prestazione intellettuale si riesce a dire con niente proprio l’essenziale. Gli argomenti e le questioni si rincorrono, tra ricordi, racconti di vita, interpretazioni del mondo e bilanci professionali, sempre però calamitati da quei temi che resteranno per sempre magnetici in fatto di architettura, di architettura sacra, e di cultura umana come tale.

Chi leggerà questo libro avrà a che fare con una conversazione continuamente attraversata da dialettiche e tensioni che risultano fondamentali quanto il «gesto sacro» in cui si incarnano: la coppia passato/presente, quella del sacro e del profano, la febbrile interazione fra uniformità globalizzatrice e nuove pulsioni identitarie, le differenze generazionali tra vecchi maestri e giovani leve del nuovo mondo. Tutto in sette capitoli nei quali, attraverso il filtro del “problema” architettonico applicato al tema religioso, Mario Botta si lascia andare a un suo giudizio su questo mondo, a una interpretazione della storia e una visione sulle sorti dello “spirituale” in questa complessa epoca postcristiana, senza lesinare rilievi critici per una cultura cattolica spesso in difficoltà nel disporsi seriamente di fronte al peso reale della questione estetica: «L’impressione è che una parte della gerarchia cattolica, nonostante il concilio Vaticano II, non si sia riconciliata con la modernità».

Riconciliarsi con la modernità per Mario Botta non significa saltare ideologicamente un fosso cronologico, quanto piuttosto non poter salvare l’eredità del passato senza riacquisirla come valuta del presente. Questa opera di tradizione/traduzione riguarda solo superficialmente la questione delle forme, in questo caso architettoniche, tocca più in profondità la natura irrinunciabile di alcuni atteggiamenti di cui anche ogni sapienza costruttiva deve mantenersi garante. L’espressione «gesto sacro» esprime bene quello che forse resta il più importante di essi. Quello che non potrà mai mancare è il «gesto» che nella trama orizzontale della città umana iscrive le tracce dell’«altro» che continua ad abitarle, persino a loro insaputa, mormorando tra i vicoli e le piazze come un parente dimenticato che anima la nostra nostalgia. Il gesto che ricorda alle Ninivi e alle Babilonie di questa nuova società secolare che nei reticoli della loro frenesia c’è dell’«altro» che chiama tutti a alzare unanimemente lo sguardo. Un tale gesto oggi appartiene anche al teatro, al museo, persino allo stadio. Ma resta il gesto tipico della chiesa, intesa proprio come edificio che sta nella città come segno anche per chi non crede, traccia di un “modo di stare al mondo” che identifica qualcuno ma interpella tutti. Vedi la chiesa e guardi in alto.

Il vero appuntamento di un libro come questo è quello col lettore che vorrà inoltrarsi fra le sue pagine. Sergio Massironi, che sostanzialmente lo ha curato, assegna a questo progetto soprattutto un senso di riconciliazione generazionale tra i giovani che hanno lavorato con lui e il grande maestro di architettura che con loro ha accettato di conversare. Ne è venuto un vero e proprio format che si spera possa avere un seguito, non solo per poter aggiungere nomi di altri maestri, ma soprattutto per mettere alla prova un metodo rivelatosi creativo e fruttuoso.

di Giuliano Zanchi