Monsignor Olivero riflette sull’esperienza del covid-19

Non è una parentesi

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15 luglio 2020

«È un tempo che urla e che ci chiede di cambiare. Per comprendere cosa ci stia dicendo questo tempo, faccio in primo luogo riferimento alla mia esperienza di malato di covid. C’è stato un momento, lungo due, tre giorni, in cui sono stato vicinissimo alla morte. Sentivo che stavo morendo — e i medici poi mi hanno confermato che il rischio è stato molto alto — e ho percepito la morte come un momento in cui tutto, proprio tutto, evapora»: lo scrive il vescovo di Pinerolo, Derio Olivero, nel volume Non è una parentesi, uscito da poco presso Effatà Editrice (Cantalupa, 2020, pagine 176, euro 13). «E in questo evaporare solo due cose restavano salde, due cose che erano perciò il vero me, il mio nocciolo duro, la mia identità: una grande fiducia, che io da credente chiamo fiducia in Dio, cioè la certezza di una Presenza, e i tanti volti cari con cui ho stabilito delle relazioni. Sono convinto che, in questa esperienza personale, sia contenuta una verità universale».

Il vescovo prosegue con l’analisi della società prima del covid-19, «la prima civiltà senza fiducia nel futuro», commentando: «Oggi sembra ancora peggio, perché questa tragedia ci dice che molti diventano cinici e si chiedono se e chissà come ne verremo fuori». Secondo monsignor Olivero, «la vocazione a ridare fiducia» è oggi l’impegno specifico dei cristiani. Questo appello «è anzitutto da coltivare in noi, perché non è detto che i cristiani siano veramente i più fiduciosi». Ma «la Parola di Dio, l’eucaristia, la comunità sono sorgenti di fiducia» e ci rendono «capaci di stare veramente, fattivamente, generativamente vicini agli altri, per far sentire un aiuto e una speranza che contagia».

Il presule auspica la vera testimonianza che è innanzitutto lasciar «trasparire un di più che non è merito nostro, un di più che riceviamo e che ci rende così», solleciti nell’avvicinarci agli altri, nel rapporto quotidiano da persona a persona, attenti a un farsi prossimo che contrasti ogni forma di individualismo, nella consapevolezza, come ha scritto Pierangelo Sequeri, che «io sono la mia destinazione, cioè io sono se esisto per qualcuno». Questo è un concetto caro al vescovo di Pinerolo che, scrivendo le parole di uno stupendo inno poi diffuso in tutta la sua diocesi, ha inserito questo ritornello: «Non io sono, ma io siamo / non chi sono, ma per chi sono. / Aiutaci, o Signore, siamo tuoi».

Durante il lockdown, «in questo isolamento — sottolinea il vescovo — ci siamo resi conto che le relazioni ci mancano come l’aria. L’altro non è il nostro inferno, come diceva Sartre, no: gli altri sono il nostro paradiso. Non è homo homini lupus, ma homo homini deus. Non dimentichiamolo!».

Monsignor Olivero auspica che nel dopo–covid si possa costruire una società migliore, tramite l’impegno nella comunità degli umani, l’essenzialità e la sobrietà, l’adultità, cioè l’essere persone che conoscono i limiti della vita senza perdere la fiducia. Circa i credenti, è importante che essi siano davvero, secondo l’insegnamento di Papa Francesco, «Chiesa in uscita», «Chiesa — spiega il presule — che esce per stare fuori, e questo significa testimonianza, farsi prossimo, prendere in mano il mondo con i suoi guai e la sua bellezza e imparare a portare il proprio contributo in politica, nell’economia, nella sanità, nella scuola, sul posto di lavoro, in famiglia, nella comunicazione».

Altrettanto appassionati e incisivi i suggerimenti per una Chiesa capace di abitare spazi diversi, come la famiglia, la liturgia, la cura della spiritualità, la cura delle relazioni. «Dobbiamo generare non una Chiesa che va in chiesa, ma una Chiesa che va a tutti. Una comunità di impegnati e di praticanti che guarda con simpatia e stima i non praticanti. Che guarda con simpatia e stima gli appartenenti ad altre confessioni e ad altre religioni. Con simpatia e stima gli agnostici e gli atei». Infatti, «uscire fuori ossigena anche l’interno». Anche perché «la Chiesa non è un’organizzazione, ma è un insieme di relazioni. Spesso la Chiesa è diventata un’organizzazione: corriamo come disperati, tra operatori pastorali neanche ci si conosce, non c’è mai tempo per fermarci e curare la nostra amicizia, la nostra relazione, la nostra fraternità. Ci si trova sempre per organizzare qualcosa. Questo non funziona: se la comunità (parrocchia, diocesi) non è un luogo di relazioni, diventa uno “scatolone vuoto” […] Non comunità chiuse, ripiegate su se stesse e sulla propria organizzazione, ma comunità aperte, umili, cariche di speranza; comunità che contagiano con la propria passione e la propria speranza. Cariche di entusiasmo, passione, speranza, affetto. Sostenute dalla relazione con Dio».

Il testo scritto dal presule termina con un esplicito riferimento alla Evangelii gaudium (n. 222-225) sottolineando l’importanza di creare processi «cioè aiutare le persone a camminare verso obiettivi comuni. E perseguirli con pazienza e tenacia. Con infinita fiducia». In conclusione, monsignor Olivero invita ad assumere la logica del dono. Proprio in questa logica, appena uscito dall’ospedale, «ho deciso — racconta — di chiamare alcuni miei amici più cari e chiedere loro il favore di spendere un po’ del loro tempo nel darmi una mano per fare un libro che potesse aiutare a riflettere partendo da questa situazione di epidemia. Il titolo Non è una parentesi è nato per stimolare tutti a non tornare come prima, come se nulla fosse successo, ma a lasciare che questo tempo brutto e difficile ci parli. Solo così possiamo uscirne nuovi e creare una società nuova».

Il libro, a cura di monsignor Derio Olivero, con la prefazione di Enzo Biemmi, religioso della comunità dei Fratelli della Sacra Famiglia, contiene infatti anche i contributi di don Duilio Albarello, Ester Brunet, storica dell’arte, Paolo Curtaz, teologo e scrittore, don Marco Gallo, Andrea Grillo, teologo, Alberto Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, don Antonio Scattolini, don Ivo Seghedoni, Michael Davide Semeraro, monaco benedettino.

di Donatella Coalova