Tra Francesco d’Assisi e frate Leone suo discepolo

Memoria di un grande legame

Luca Giordano, «San Francesco d’Assisi» (XVII secolo)
01 luglio 2020

Due piccoli pezzi di pergamena (cuciti assieme non farebbero un piccolo fazzoletto) trasmettono, su Francesco d’Assisi e sul modo in cui visse l’amicizia, più di tante altre fonti, diverse e di varia natura. Sì, perché quanto si legge su quei piccoli pezzi di pelle è stato vergato dalla stessa mano di Francesco. Casi di autografia sono piuttosto rari nel Medioevo, e se di Francesco ne sono giunti fino a noi addirittura due, ciò si deve al loro destinatario, frate Leone, il quale li conservò con amorevole cura portandoli con sé lungo tutto il corso della sua vita.

Autografi, quindi. Ma di cosa si tratta? La prima delle due reliquie è una breve lettera (cm. 6 x 13) indirizzata al suo compagno, oggi conservata nel duomo di Spoleto; la seconda, custodita presso il sacro convento di Assisi, è invece la cosiddetta chartula (cm 10 x 13), che da un lato riporta le Lodi di Dio altissimo, composte da Francesco sulla Verna nel 1224, e dall’altro la Benedizione a frate Leone. A questi brevi scritti, che soprattutto a partire dagli anni Novanta del secolo scorso hanno sempre più attirato l’attenzione degli studiosi, Pietro Maranesi ha dedicato ora un agile volumetto nel quale ha saputo unire — come attesta Attilio Bartoli Langeli, che tali testi ha studiato a lungo e a cui si deve la prefazione — le «due modalità di lettura critica degli autografi: quella esegetica e quella spirituale». Caro Leone ti scrivo. Gli autografi di Francesco: memoria di una grande amicizia (Padova, Edizioni Messaggero, 2020, pagine 210, euro 17). Il lavoro si sviluppa su tre capitoli, più una conclusione che ne riassume il percorso in termini di consolazione: un ministero di consolazione e di sostegno esercitò infatti Francesco nei confronti di Leone, suo discepolo e amico, e un ministero di consolazione è tuttora esercitato da questi scritti sui lettori che vi si avvicinano non solo con l’occhio critico dei paleografi, ma lasciandosene catturare a livello esistenziale.

Nel primo capitolo, Maranesi sintetizza il vivo dibattito paleografico che soprattutto per merito di Bartoli Langeli si è andato accendendo intorno agli autografi, senza limitarsi a riassumerne i risultati, ma mettendo in evidenza un particolare interessante, finora sfuggito a tutti, e in grado di riaprire la questione sulle ultime due righe delle Lodi di Dio altissimo: queste, infatti, mancano nell’originale e ne conosciamo il testo solo grazie alla trascrizione (del secolo XIV) riportata nel ms. 344 di Assisi; ebbene, come fa notare Maranesi, le due righe potevano essersi perdute già al tempo in cui Leone — sull’altra parte del foglio — scrisse le proprie rubriche: in effetti, l’ultima rubrica, sul bordo del foglio, segue una curva che sembra condizionata dalla situazione della pergamena, la quale a quel tempo doveva perciò essere già compromessa. Il capitolo secondo è dedicato alla lettera conservata a Spoleto, qualificata come un «biglietto di consiglio»; si tratta, indubbiamente, di un documento straordinario: Francesco scrive a Leone per dirimere alcuni dubbi che questi gli manifestava riguardo a scelte inerenti la sequela di Cristo, in specifico quale via fosse la migliore per seguire le orme e la povertà del Signore. Nella sua analisi, Maranesi lascia emergere la modalità educante seguita da Francesco: le parole dette lungo la via, infatti, venivano riassunte in un invito al discernimento personale e comunitario, dopo il quale Leone e i frati che erano con lui avrebbero dovuto scegliere la maniera più idonea per porsi alla sequela di Cristo e della sua povertà e mantenervisi fedeli. Francesco, quindi, non volle essere la chioccia dei suoi frati, ma pretese che questi camminassero con le proprie gambe; semmai fu una madre (e come “madre” si presentò a Leone) non opprimente, come ogni frate avrebbe per l’appunto dovuto esserlo per gli altri. Una lettura, quella di Maranesi, che mi trova pienamente consenziente.

Secondo quanto attesta Tommaso da Celano, le Lodi di Dio altissimo furono invece composte da Francesco sulla Verna a sostegno di uno dei suoi compagni, il quale era in preda a una forte tentazione. Tommaso non ne riferisce il nome, ma — fortunatamente — lo stesso Leone ha provveduto a indicarsene come destinario nelle rubriche scritte sul lato che riporta la Benedizione. Dall’insieme dei dati riferiti si può supporre che, in un primo tempo — comunque «dopo l’impressione delle stimmate» — e per motivazioni proprie (per rendere «grazie a Dio per il beneficio a lui fatto»), Francesco avesse scritto le Lodi di Dio Altissimo su un lato della pergamena che in un secondo tempo consegnò al compagno, il quale gliene aveva fatto richiesta, aggiungendovi sul verso opposto la benedizione e un disegno di sua mano.

Per Maranesi queste Lodi esprimono il mistero di Dio, che all’uomo appare come il totalmente altro (rr. 1-6a) e lo straordinariamente prossimo (rr. 6b-17). Viceversa, con la Benedizione a Leone, Francesco esercita ancora una volta il suo ministero di consolazione. A questo riguardo, penso che forse il disegno sotto il Tau avrebbe meritato qualche parola in più, visto che fu proprio Leone a precisare che Francesco «fece questo segno thau col capo, di sua mano». Tra la seconda e la terza rubrica si trova infatti un disegno che raffigura una grande croce piantata su un monte, all’interno del quale si vede una testa cinta da un turbante: con molta probabilità, si voleva rappresentare in quel modo la croce di Cristo piantata esattamente sulla tomba di Adamo (un tema iconografico che ha goduto di grande fortuna): con la sua morte, Cristo — il nuovo Adamo — restituiva cioè agli uomini la vita che era stata loro tolta dal primo Adamo. Con la sua asta verticale, la croce taglia inoltre il nome di Leone (Le-o): anch’egli, dunque, era del numero degli eletti, di coloro cioè che avevano ricevuto sulla fronte il segno della salvezza (cfr. Ezechiele 9, 4; Ap 7, 3; 9, 4).

Non c’è dubbio che il libro di Maranesi proponga molti motivi d’interesse per il lettore: val quindi senz’altro la pena meditarlo con attenzione.

di Felice Accrocca