Il 25 luglio di 140 anni fa nasceva il santo medico Giuseppe Moscati

La straordinarietà nell’ordinarietà

Una singolare ricetta firmata da Moscati
24 luglio 2020

Nel leggere il sacrificio delle vite degli operatori sanitari ai tempi del covid-19, non è difficile ripensare a una storia di paradigmatica bellezza come quella di san Giuseppe Moscati (1880-1927), che più di ogni altro seppe interpretare in modo straordinario la sua vita ordinaria.

La straordinarietà dell’esperienza moscatiana si rende manifesta nell’esercizio della libertà che spinge il medico napoletano a corrispondere pienamente, fin da ragazzo, a ciò che chiamiamo “vocazione”.

Ogni uomo è alla ricerca di quel senso della vita che rende leggera e amabile la fatica nella routine della vita quotidiana: il giovane “Peppino” riesce, grazie alla meditazione e alla preghiera, a raccordare la propria vocazione con il valore che egli stesso dà all’esistenza e gli consente di riconoscere da subito il senso della vita posto in lui dal suo Creatore. Scrive infatti in una lettera al senatore D’Andrea: «Da ragazzo guardavo con interesse all’Ospedale degli Incurabili, che mio padre mi additava lontano dalla terrazza di casa, ispirandomi sentimenti di pietà per il dolore senza nome, lenito in quelle mura».

Contemplando l’Ospedale degli Incurabili, lasciandosi ispirare da quella visione e pregando, Moscati nutre con forza crescente il sogno di lenire egli stesso il dolore senza nome dei pazienti. Come insegna sant’Ignazio di Loyola nella sua autobiografia, l’amore alimenta i sogni che generano movimento alla ricerca dell’oggetto amato per poterlo gustare, per poterne verificare la bontà. La forza del sogno di Moscati supererà due verifiche: riuscirà da un lato a dissolvere le perplessità della madre, preoccupata che l’estrema sensibilità e la delicatezza del figlio potessero mal sopportare tutto quel dolore a cui la professione del medico lo avrebbe esposto; dall’altro il sogno di Peppino riuscirà a rompere con la tradizione paterna della giurisprudenza, per intraprendere la via dei medici anargiri (letteralmente “senza denaro”), che affonda le sue origini nella storia dei santi Cosma e Damiano.

E proprio da questa seconda verifica, possiamo cogliere un primo aspetto della straordinarietà di Moscati nella vita quotidiana: il famoso cappello posto nel suo studio con la scritta: «Chi ha metta, chi non ha prenda» (come si può osservare nella ricostruzione delle sue stanze presso la Chiesa del Gesù Nuovo di Napoli). Esso ci offre la misura di come Moscati interpretasse in chiave moderna il suo essere, in senso evangelico, medico anargiro, ossia gratuito: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10, 8).

Straordinaria è la sua prossimità alla gente comune piuttosto che alla élite napoletana, che pure non trascurava invitandola a rivolgersi ai suoi colleghi oppure ad attendere pur di non sottrarre tempo prezioso alla cura dei poveri. L’atteggiamento di Moscati nell’operare il suo discernimento su chi curare si evince chiaramente dall’episodio riportato dal dottor Postiglione: «Si presenta un giorno al suo studio un distinto signore dell’aristocrazia di Napoli con la preoccupazione sul volto e lo prega di recarsi subito a visitare la mamma inferma. Il professore sta sulla negativa, tanto che il signore gli chiede spiegazione di questo “no” reciso. “Gliela do subito. — rispose il Professor Moscati — Ella ha ricchezze e può benissimo invitare un altro professore. Io sono diretto ad un povero prete a San Giovanni a Teduccio”. Quel signore restò edificato: “E – soggiunse – se l’accompagnassi prima a San Giovanni, verrebbe poi a casa mia?” — “Volentieri. Ella vuol concorrere ad una opera buona”. E così fu fatto».

Povertà e sofferenza sono, dunque, le priorità quotidiane del santo medico alle quali si sente chiamato dall’attenzione per gli ultimi la cui origine può essere una sola: la carità evangelica. In una lettera al dottor Guericchio del 22 luglio 1922 scrive: «Non la scienza, ma la carità ha trasformato il mondo...». E ancora in una lettera alla signora Emma Picchillo afferma: «Esercitiamoci quotidianamente nella carità. Dio è carità: chi sta nella carità sta in Dio e Dio sta in lui. Non dimentichiamo di fare ogni giorno, anzi ogni momento, offerta delle nostre azioni a Dio, compiendo tutto per suo amore».

L’attività medica moscatiana è, pertanto, sostenuta non dalla sola scienza, dalla sua scrupolosa conoscenza scientifica, ma anche dalla carità divina. Questo singolare connubio tra scienza e fede è un altro dato di straordinarietà nella vita quotidiana dello scienziato: allarga il suo orizzonte terapeutico, accordandogli la percezione di non limitare le sue indicazioni mediche al solo corpo, ma di prendersi cura anche dell’anima come ci testimonia il prof. Bottazzi: «...non tralasciò mai di curare, insieme coi corpi, anche e innanzi tutto le anime, e di avviarle verso quella luce che, per singolare grazia divina, a lui sfolgorava da abissi per noi impenetrabili».

Questo modo di procedere di Giuseppe Moscati è testimoniato dall’originale prescrizione dei sacramenti presente spesso nelle ricette insieme ai farmaci [cfr. foto]. In particolare, egli prescrive la confessione e l’Eucaristia, avvertiti dal santo come potenti strumenti terapeutici che, operando nell’anima, guariscono anche il corpo. Ci sembra di poter leggere questa sensibilità straordinaria di Moscati anche in quei medici che, impegnati sul fronte del covid-19, hanno chiesto di poter portare l’Eucaristia ai malati nel giorno di Pasqua.

Per Moscati l’Eucaristia non era riservata ai soli malati, ma era necessaria anche per sostenere la vita spirituale dei medici stessi affinché ogni azione fosse mossa e sostenuta dallo Spirito di Dio. Il padre gesuita Giovanni Aromatisi, consigliere spirituale del santo, dichiarerà: «In quanto al culto del SS. Sacramento, questo fu il centro di tutta la sua vita. Faceva la Santa Comunione tutti i giorni e questo spessissimo con gravissimo incomodo; e viaggiava di notte digiuno per potersi accostare alla Santa Comunione l’indomani. Era risaputo comunemente dagli infermi, specialmente da quelli che dimoravano lontano, in Sicilia ed in Calabria, che se avessero voluto una visita dal Professor Moscati avrebbero dovuto far trovare pronto il sacerdote, perché egli avesse potuto ascoltare la messa, servendola e facendo la Santa Comunione».

In ciò riconosciamo un altro aspetto straordinario nella quotidianità della vita di san Giuseppe Moscati: la sua vita eucaristica. Il dono quotidiano dell’Eucaristia lo nutre e lo sostiene affinché egli stesso sia dono per i suoi malati, incarnazione della grazia divina che lo porta a consumarsi totalmente per dare sempre più forma alla Carità. Vita eucaristica che non esita di donare tutto sé stesso, neanche di fronte al rischio della propria vita, pur di salvare malati presenti all’interno di una struttura pericolante dopo l’eruzione del Vesuvio. La struttura crollerà appena dopo della sua uscita con l’ultimo malato.

Questa vita eucaristica di Moscati esaurisce il suo tempo terreno silenziosamente sul lettino del suo studio il 12 aprile 1927, all’età di 46 anni, poco dopo aver visitato l’ultimo paziente. Tuttavia, l’eterogeneo flusso di persone, tra cui anche atei o persone lontane dalla fede, a tutt’oggi incessante presso la sua tomba al Gesù Nuovo di Napoli, è la testimonianza più viva che per “padre Moscati” (come lo chiamano alcuni devoti credendolo un sacerdote) il tempo eucaristico del prendersi cura delle vite altrui non è ancora terminato e che lo straordinario può incarnarsi ancora nella vita ordinaria attraverso la preghiera e l’intercessione del santo medico.

Mi piace credere che san Giuseppe Moscati, in questo tempo di pandemia, abbia continuato ad operare stando accanto ad ogni malato e ispirando sacerdoti ed operatori sanitari nella dedizione caritatevole verso il prossimo, ossia attraverso il dono, non comune ed eccezionale, di sé anche a rischio della propria vita.

di Francesco Citarda, si