LABORATORIO - DOPO LA PANDEMIA
Il libro di Matteo Truffelli «Una nuova frontiera»

La promessa mancata della modernità

(NASA/Newsmakers)luna.jpg
29 luglio 2020

Quando ha scritto «Una nuova frontiera. Sentieri per una Chiesa in uscita» (Editrice Ave, Roma, 2020, euro 11, pagg. 129) il presidente dell'Azione Cattolica, Matteo Truffelli, non poteva certo immaginare quanto stava per accedere di lì a poco. O, almeno, non poteva prevedere la forma che la crisi incipiente del mondo moderno avrebbe assunto, lo sconvolgimento di un pianeta improvvisamente orfano di relazioni e assetato di fraternità. Sebbene non sia passato poi così tanto tempo da quel gennaio scorso di un mondo che fu, il volumetto scritto per la serie “Mongolfiera. Appunti per un'AC che si rinnova”, si presenta quasi come un'involontaria istantanea di un “come eravamo” alla vigilia di quella che passerà alla Storia come la “grande epidemia”. Un evento che, appunto, ha spinto l'umanità intera a rimettersi in cammino, seppure virtualmente, verso nuove frontiere.

Il problema di fondo, come spesso accade quando si comincia un viaggio, è cosa portarsi dietro e cosa lasciarsi alle spalle. E qui Truffelli fornisce un suggerimento difficile da ignorare. «La nostra “nuova frontiera”», scrive quando è da poco trascorso il cinquantesimo anniversario della missione dell'Apollo 11, «la nostra luna da raggiungere, è un mondo in cui la fraternità possa smettere i panni di promessa mancata della modernità».

Intendiamoci. La pandemia, da un parte, come un abile caricaturista, ha acceso, è vero, i riflettori su alcuni aspetti grotteschi del nostro vivere. Ma dall'altra ci ha reso fin troppo facili e insinceri predicatori di pentimento e contrizione, indefessi critici delle storture del progresso, improvvisati paladini della solidarietà e della vicinanza (la nostalgia degli altri, purtroppo, è sempre molto più che proporzionale alla distanza che ci separa). Non è il caso, evidentemente, di Truffelli, il quale, in tempi non sospetti, scrive: «La fraternità deve poi essere vissuta e condivisa nella realtà, dentro l'esistenza del mondo, nei luoghi della vita quotidiana: con chi incontriamo sul posto di lavoro, a scuola, per strada, nelle relazioni interpersonali e negli spazi pubblici, nei meccanismi del confronto politico, dentro il dibattito culturale».

Era, come detto, il gennaio del 2020. Di lì a poco, avremmo sperimentato tragicamente quanto la fraternità non sia un optional, un diletto da religiosi o da dotati filantropi, ma l'indispensabile presupposto della nostra sopravvivenza su questo pianeta. E soprattutto avremmo capito (forse) che la vita, se non la nostra coscienza o la nostra fede, ci impone di praticare questo sentimento non solo con chi è più prossimo ma con chiunque condivida con noi semplicemente la condizione di essere umano. «Vivere la fraternità è, allora, — scrive ancora Truffelli — anche questione di tempi e di priorità: il desiderio di accogliere la sfida di questa nuova frontiera ci deve portare a domandarci se quello che siamo e che facciamo, se i modi e i tempi con cui sono pensate e realizzate le nostre iniziative finiscono per favorire o, piuttosto, per ostacolare la possibilità di condividere fraternità con tutti, dentro e fuori l'associazione, dentro e fuori la comunità ecclesiale. Se ci inducono a passare tutto il tempo con chi già è nostro fratello e nostra sorella, con chi già la pensa come noi e vive come noi — rischiando di fare delle nostre attività, del nostro linguaggio e dei nostri “riti” delle gabbie che non permettono agli altri di entrare e che tengono noi rinchiusi, ostaggi di noi stessi — oppure se ci aiutano a “condividere la vita della gente e imparare a scoprire quali sono i suoi interessi e le sue ricerche, quali sono i suoi aneliti e le sue ferite più profonde; e di che cosa ha bisogno da noi (Papa Francesco, Discorso ai partecipanti al congresso del Forum Internazionale dell'Azione Cattolica, 27 aprile 2017)”».

Se la riscoperta della fraternità è — non solo per l'Azione cattolica evidentemente — la premessa di qualsiasi rinnovamento che sia portatore di un senso, la pratica e la declinazione della stessa corrono su una strada tutt'altro che facile. La prima indicazione è quella dell'ascolto. L'essere “popolari”, che Truffelli indica come stile della sua associazione, vuole dire anzitutto condivisione e passa quindi per l'ascolto profondo delle ragioni di chi non è uguale a noi. «Ci è chiesto anche qui — si legge ancora nel libro — un esercizio difficile, che consiste nell'abbandonare l'idea che ci sia un'unica possibile traduzione dei lavori in cui crediamo e della fede che viviamo».

L'accettazione della molteplicità delle risposte, tuttavia, è legata a doppio filo all'inevitabilità di una scelta. In un mondo da ridisegnare non si può essere neutrali. Occorre allora «ribadire e rilanciare il valore della politica», per affrontare le grandi questioni del nostro tempo, la prima delle quali è la crescente diseguaglianza. Senza paura di scontentare qualcuno: non si può essere fraterni senza sporcarsi le mani. Eppure, «nella comunità ecclesiale — osserva il presidente di Ac — prevale la tentazione di evitare di discutere le questioni politiche per timore delle contrapposizioni che esse inevitabilmente comportano. Una divisione che possiamo assumere positivamente solo se sappiamo che ben più radicali sono le ragioni dell'unità». Quando si è saldi nelle scelte, quando si è “competenti” circa la propria identità, il confronto non spaventa. E «solo così — avverte Truffelli — potremo sottrarci alla tentazione, sempre incombente, di “tirare il Vangelo per la giacca».

di Marco Bellizi