LABORATORIO - DOPO LA PANDEMIA

La gioia ce la metto io

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20 luglio 2020

Come si sentiva Lazzaro uscito dalla tomba? Facile immaginarlo felice di essere tornato in vita… Ma ne siamo certi? Sarà stato semplice per lui abbracciare gli amati? E coloro che lo piangevano, quali gesti avranno ritrovato con lui? Immediati, certo… ma anche il giorno dopo e quello dopo ancora.

Mano a mano che la straordinarietà dell’evento veniva a poco a poco sovrastata dalle esigenze delle questioni comuni (mangiare, dormire, lavorare, parlare di cose irrilevanti, sorridersi…) e tutti erano stati precipitati improvvisamente dalla scompostezza (socialmente accettata) di un lutto doloroso, fatto di lacrime e di emozioni, ad una nuova “normalità”, che cosa davvero è successo?

Questa immagine evangelica, per quello che non racconta, mi tormenta in questo tempo in cui sembriamo uscire da una eccezionalità (almeno in Italia, e almeno per ora) e apparentemente rientriamo in una progressiva “normalità” che non è normale per niente. E non tanto per le mascherine, per i gesti di distanza come nuovo valore sociale, per la complicazione di prenotare ogni cosa….

Normale non è per niente perché siamo tutti segnati, il virus ci ha arati rivoltando le zolle profonde e portando alla luce molto (troppo?), e non abbiamo un vocabolario condiviso per dirlo, perché abbiamo bisogno di tempo per capire i nostri stessi movimenti profondi, non riconosciamo noi stessi, né gli altri, siamo a pelle scoperta e non ci piace, ogni reazione è sproporzionata e nessuno è esente e dunque in grado con un po’ di pazienza e forza di “reggere” la stranezza dell’altro. Abbiamo paura della parole, quelle che diciamo e che ascoltiamo, che sembrano non corrispondere più lontanamente a nulla.

Credo che esperti in materia (psicologi di stress post traumatici, psicologi sociali, antropologi, filosofi…) potrebbero meglio di me e con maggior completezza descrivere e spiegare. E mi auguro davvero che, accanto a task force sanitarie ed economiche, qualcuno pensi ad uno sforzo collettivo di intellettuali che immaginino una task force antropologica che ci aiuti, tutti, a ritrovare parole, gesti, corpi umani. Credo sia davvero urgente.

Al gesto di forza maschile (e squisitamente da pastore) del 27 marzo di Papa Francesco che si è preso il mondo sulle spalle, dovrebbe seguire ora una femminile (le sorelle di Lazzaro? Le levatrici dell’Esodo?) ricucitura paziente, come quella di quel Dio-madre che alla fine del capitolo 3 di Genesi ci viene detto aver pietà della vergogna provata da Adamo e Eva per la nudità dopo il peccato, e che cuce per loro delle tuniche.

Abbiamo bisogno di nuove tuniche per la vulnerabilità che ci imbarazza della nostra pelle scoperta, e non serve tentare di rimettere insieme i brandelli di quelle vecchie.

Altri, dicevo, sapranno meglio descrivere e spiegare: vorrei qui condividere solo qualche riflessione da credente, sul frattempo, mentre i pensieri crescono e la parole nascono e trovano la loro esattezza nel dialogo e nella pazienza.

Pensieri poveri e da poveri, di chi riconosce la propria vulnerabilità come un kairos, un passaggio del Signore, di chi non cerca rettitudine ad ogni costo, ma piuttosto inclinazione alla vita e al soffio dello Spirito. «Quando sono scosse le fondamenta, il giusto che cosa può fare?» (Sal 10, 3): la domanda è legittima, al tempo del salmista come oggi. Ma la domanda del salmista va letta attraverso Cristo, unico giusto che si è fatto povero e questo, mi sembra, significa innanzi tutto riconoscere noi stessi dalla parte dei vulnerabili perché incapaci di tutta la giustizia che servirebbe, più simili ad Adamo e Eva in questo contesto storico, che alla fierezza del salmista.

Dobbiamo prenderne atto: non siamo in grado di ristabilire oggi la giustizia e la esattezza dei gesti e delle parole, ma non per questo abbiamo meno bisogno di gesti e parole che nutrano ogni giorno, che siano gesti e parole capaci di provvisorietà, di incertezza, di congiuntivo e condizionale, di reggere la nostra stessa inadeguatezza.

Parole e gesti dialogici: ricominciamo, nel frattempo, da qui, dalla nostra estraneità a noi stessi e dal riconoscere l’altro (anche il più amato, anche il più conosciuto) come un nuovo straniero, da reincontrare con delicatezza e reimparare senza dare nulla per scontato.

È questo un tempo in cui i credenti potrebbero dare la bella testimonianza di un nuovo “corteggiamento” tra umani, piccole magie, distanze e vicinanze, delicatezza che consentano di rallentare almeno la crescente aggressività…

Perché la vita è (anche) adesso e perché le ferite vanno medicate con dolcezza, le proprie come le altrui.

Gesù, il giusto povero, ci ha lasciato, per il frattempo, un Consolatore: mi sono sempre chiesta perché questo attributo a quello Spirito che in altri tempi della mia vita sentivo di più come creatore e creativo, generatore, innovatore… Oggi vedo almeno un motivo chiaro: quando sono scosse le fondamenta serve un Consolatore, così riscriverei il salmo.

E se la prima scuola sono parole e gesti dialogici, la seconda è raccogliere frammenti: alla fine del grande miracolo della moltiplicazione dei pani (cfr. Gv 6, 1-13), il Signore comanda ai suoi di raccogliere i pezzi avanzati «perché nulla vada perduto» (Gv 6, 12). Normalmente si liquida quel versetto, come il segno di un’abbondanza: tutti ne hanno mangiato e ne è ancora avanzato.

Ma perché bisogna raccogliere i pezzi? C’è stato il miracolo, tutti si sono nutriti… Mi sembra che questo invito corrisponda al nostro tempo: nel miracolo della misericordia, oggi, dobbiamo raccogliere i pezzi perché nulla vada perduto, cioè mettere in ceste perché ci sia pane ancora per altre fami, dobbiamo raccogliere gli scarti (direbbe Papa Francesco), i pezzi avanzati in queste esperienze dolorose e considerarli preziosi, riempire le ceste perché nutrano la fame.

Nessuna presunzione dell’intero e del sufficiente, tanto meno del moltiplicato: la pazienza dello scarto che basta forse solo per oggi, raccolto e diviso.

Non so, non sappiamo: per questo non sprechiamo nulla, che nulla vada perduto, dolore, fatica, confusione, ma anche affetti irriconoscibili, nuove estraneità, nuovi doni….

Sapremo dare la bella testimonianza di credenti che non sprecano nulla e che dagli scarti ricevono il dono che dividono per vivere ancora, vivere di nuovo, vivere nella lieta speranza?

C’è una poesia di Mariangela Gualtieri (Bestia di gioia, 127) che mi accompagna in questi tempi e che, come accade con la poesia, sopporta molti livelli di lettura: poesia d’amore? Poesia che riguarda il mondo? Poesia politica? Per me si tratta, oggi, del modo dialogico e frammentato in cui esprimo ciò per cui prego, ciò che spero e credo Dio stia dicendo a ciascuno di noi:

C’è nella tristezza un contagio

amore mio, e da questo si vede

che abbiamo fatto comune cuore

e siamo uno che pare due.

Allora io

insemino la gioia

in questa cosa che non consiste

però esiste e tiene entrambi appesi.

La gioia ce la metto io.

di Stella Morra