Viaggio nelle serie televisive che, dall’Australia all’Italia, affrontano il tema delle migrazioni

La ferita che taglia l’intero pianeta

Una scena da «Stateless»
31 luglio 2020

Si può commettere l’errore, davanti allo straniero venuto da una terra povera o insanguinata, di relazionarsi a lui con superficialità o indifferenza. Peggio ancora, si può mettere la nostra paura davanti al suo dolore, anteporre la nostra ansia per un privilegio percepito in discussione, alla sofferenza di chi cerca pace. Può capitare di dimenticare un passaggio fondamentale: che dentro ogni precarietà estrema che chiede aiuto c’è un essere umano non meno importante di noi, che va prima di tutto (ri)conosciuto come tale. Per tenere alla larga questa possibilità d’errore, questa insonne tentazione, tutto può essere d’aiuto,  certamente anche le serie televisive quando si occupano — non spesso, finora — di un tema serio come quello delle migrazioni; quando lo fanno con parole utili alla messa in moto dell’empatia.

Ce ne sono in Collateral, la serie inglese del 2018 in cui è centrale il tema dell’immigrazione clandestina nella Gran Bretagna post-Brexit. Alcune le dice il deputato laburista David Mars, quando una giornalista gli fa notare che Abdullah, il ragazzo ucciso a colpi di pistola, era iracheno e non siriano: quindi non richiedente asilo ma migrante economico. Allora Mars sbotta: «Non possiamo dire che era un essere umano ucciso per strada?». C’è l’esortazione, in questa replica, a mettere la vita prima delle etichette e dei numeri, l’umanità prima della speculazione politica o economica.

Da essere umano, con uno sguardo attento, vorrebbe essere trattato, osservato, anche Ameer, uno dei personaggi principali dell’australiana Stateless, su Netflix dall’8 luglio scorso: «Sono un padre — dice — un insegnante e un uomo di fede. Perché non vedete questo quando mi guardate?». È afghano della minoranza Hazàra, è un profugo che ha perso in mare la moglie e una delle sue due figlie. Saprà separarsi anche dall’altra, quando questo servirà a far uscire almeno lei da quel centro di detenzione nel deserto australiano in cui Stateless è ambientata: un limbo estenuante, una gabbia in cui migranti e richiedenti asilo vengono chiamati con un numero. Uno spazio attraverso il quale, partendo da fatti reali, la serie denuncia la scarsa cura della fragilità umana, l’osservazione insufficiente della persona che cerca, rischiando moltissimo, un futuro. La storia vera da cui principalmente Stateless prende spunto è quella di una donna tedesca con permesso di soggiorno permanente in Australia. Malata di schizofrenia, scappò senza documenti da un ospedale psichiatrico e rimase prigioniera a lungo in uno dei centri descritti dalla serie, prima che venissero riconosciute la sua patologia e la sua identità.

Nella finzione diventa Sophie Werner: immagine di uno sguardo distratto sull’ultimo da parte di un sistema, dell’incapacità di intercettare la richiesta di soccorso del più bisognoso, di compiere quel tentativo di immedesimazione con lui sintetizzato da un’immagine di Tutto il giorno davanti, la recente fiction Rai ispirata alla vicenda reale di Agnese Ciulla, ex assessore alle Politiche sociali del Comune di Palermo. Durante il suo mandato è diventata tutrice di centinaia di minori stranieri non accompagnati, arrivati in Sicilia senza nulla. Nella finzione prende il nome di Adele Cuccia (Isabella Ragonese) e quando deve installare una mostra fotografica sugli sbarchi dei migranti, ha l’idea di appendere sul soffitto la gigantografia di un barcone carico di facce sgomente, fotografate da un elicottero dall’alto. L’autore dello scatto invita Adele a raggiungere il centro del salone: «Se ci mettiamo in questo punto, proprio sotto, li guardiamo come loro mi stavano guardando quando li ho fotografati»: è la ricerca dello stato d’animo del prossimo sofferente, dei «nostri fratelli e sorelle — dice Papa Francesco nel messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato nel 2016 — che cercano una vita migliore lontano dalla povertà, dalla fame, dallo sfruttamento e dall’ingiusta distribuzione delle risorse del pianeta, che equamente dovrebbero essere divise tra tutti».

E il primo prezzo che pagano, certo non l’unico, è quello della separazione dalle proprie radici e dagli affetti. «Non ho nulla – dice Javad, iraniano fuggito dal campo di detenzione di Stateless per riabbracciare i propri cari – né documenti né diritti, ma ora che la mia famiglia è riunita so di avere un futuro». Rimarca il valore fondamentale degli affetti per ogni essere umano, ma purtroppo per lui una nuova separazione forzata è dietro l’angolo. 

La stessa che conosce la famiglia di Kabir nel primo episodio di Little America, la serie antologica di Apple tv+ (2020) composta da otto episodi indipendenti tutti ispirati a storie vere di immigrati negli Stati Uniti. Sono testimonianze di un’integrazione faticosa, storie che arrivano da diverse parti del mondo; da quell’India, anche, dove i genitori di Kabir sono costretti a tornare in attesa di un permesso di soggiorno, lasciando il figlio appena dodicenne a doversela cavare senza di loro per anni.

Separazione è una parola chiave anche nella docuserie Vite clandestine: sei episodi su Netflix dal 2019, storie di famiglie arrivate in America per trovare riparo da condizioni difficili, spesso molti anni fa, ma minacciate dalla possibilità di una separazione perché non tutti i documenti di cittadinanza sono in regola, in un presente di leggi complicate e restrittive. È una ferita che taglia l’intero pianeta; ne è consapevole l’Adele/Agnese di Tutto il giorno davanti, che dice a sua figlia: «Io e te siamo fortunate, non dobbiamo separarci, ed è la cosa più bella al mondo». Il riferimento è ai tanti ragazzi incontrati da Agnese Ciulla, e più in generale alla quella fragilità e a quella speranza che dobbiamo sempre tutelare.

Lo fa bene Kip Glaspie: la detective di Collateral interpretata da Carey Mulligan, che incinta impegna la sua fragilità fisica e la sua forza interiore per offrire giustizia ad Abdullah, e poi speranza e fiducia alle sorelle di lui che trova nascoste in un garage di Londra: «È tutto questo quello che possiamo offrire?», si chiede. «Vorrei che gli innocenti fossero trattati da esseri umani», aggiunge, provando compassione per il dolore osservato. «Devi fidarti della persona che sono — dice a una sorella di Abdullah — a contare sono le persone».

Quelle che Papa Francesco invita a cercare in ogni migrante: «Dobbiamo pensare loro come persone. Guardare i loro volti, ascoltare le loro storie», spiega in un frammento del documentario di Wim Wenders a lui dedicato, Papa Francesco, un uomo di parola. Lo fa, a modo suo, silenziosamente, anche Il commissario Montalbano di Luca Zingaretti, nella puntata  «L’altro capo del filo» del 2019, quando accoglie la sofferenza al porto, quando recupera in mare un cadavere, quando abbraccia l’agente Catarella che gli racconta, commosso, di una migrante incontrata al porto, e del suo bambino nato morto. Lo fa inchiodando due scafisti per stupro e poi entrando in una chiesa, sedendosi e lasciandosi attraversare dal ricordo lacerante della tragedia osservata. Un nuovo caso lo attende, ma questo breve frammento di televisione rimane, offrendo il suo contributo di sensibilità e di umanità a un tema così complesso e urgente, così al centro del  futuro di tutti, nell'attesa di altre serie capaci di raccontare — si spera bene — le vite dell’altro: le persone prima di tutto. 

di Edoardo Zaccagnini