Intervista al poeta Nicola Bultrini

La «Divina Commedia»
nei campi di concentramento

Eugéne Delacroix «La barca di Dante» (1822)
13 luglio 2020

Alla vigilia del settimo centenario della morte di Dante, Nicola Bultrini testimonia, con il suo partecipato saggio Con Dante in esilio - La poesia e l’arte nei luoghi di prigionia (Milano Ares edizioni, 2000, pagine 176, euro 14,90), il rapporto che gli internati nei campi di concentramento, pur in circostanze estreme, ebbero con l’arte in generale e con la Divina Commedia in particolare. La lettura dell’opera di Dante pare aver offerto ai reclusi, italiani e no, letterati famosi (Guareschi o Gadda) o semplici prigionieri, una luce da seguire per non arrendersi ad un inferno tanto più mostruoso poiché reale. Nicola Bultrini, tra i più significativi poeti italiani contemporanei, ripercorre la genesi del suo progetto e riflette sulla funzione dell’arte in circostanze inedite, violente, come quelle di reclusione ed esilio.

Da dove nasce l’idea di questo libro e come è avvenuta la sua gestazione?

Quando ho iniziato ad avvicinarmi a questo argomento, ho avvertito la necessità di rileggere la Divina Commedia e di farlo come possono averlo fatto gli internati nei Lager, ovvero spontaneamente e senza affidarmi alle note e ai commenti. Ebbene, il ritmo, il canto, la poesia producevano una sorta di levità del pensiero. Il cortocircuito è stato immediato. Come era possibile che uomini reclusi, sottoposti a violenze e privazioni decidessero di dedicarsi ad una pratica così impalpabile. È bastato poco per scoprire che in realtà, la frequentazione dell’arte e della poesia era diffusissima nei campi di concentramento. Dalla mia personale necessità di capire questo incredibile fenomeno, ho iniziato prima di tutto a raccoglierne le testimonianze, quindi le reali prove storiche.

La poesia sembra farsi strumento adatto a cogliere lo spettro profondo delle immagini, a leggere l’altrimenti indicibile. Qual è l’immaginario della «Divina Commedia» che impronta l’esperienza di reclusione?

L’opera di Dante è centrale nel libro perché la Divina Commedia è uno straordinario strumento di decodificazione della realtà. Lo è sempre stato e lo è ancora attualissimo, nei giorni nostri. In un certo senso l’illuminato Dante ha metaforizzato tutta la casistica dei comportamenti umani offrendo un viatico per decifrarne le trame sottili. Gli internati nei campi di concentramento avevano quindi a disposizione un testo in cui ritrovare e rileggere, sublimata nel canto, la loro particolare esperienza. Ma non solo, quello del Poeta, dall’Inferno, al Purgatorio e infine al Paradiso è un cammino di redenzione, che passa attraverso una spietata analisi introspettiva. Ciò di cui avevano bisogno gli internati per compiere uno slancio verso una coscienza e una consapevolezza più profonde di ciò che la realtà storica materiale poteva consentire.

Qual è il motivo biografico e familiare che la lega al tema dell’esilio e della prigionia?

Mio nonno paterno era un appuntato dei carabinieri e dopo l’8 settembre del 1943, come centinaia di migliaia di militari italiani, rifiutò di servire i nazifascisti. Fu quindi deportato in un campo di concentramento vicino a Dachau, dove è rimasto per ben due anni, fino a riuscire a fuggire e a tornare a casa, a piedi! Questa esperienza così radicale e tragica (ma stracarica di salvezza) riecheggia da sempre nella storia della mia famiglia e io, fin da bambino molto curioso, me la sono portata dentro come un grande punto interrogativo. Quella esperienza di mio nonno, di impensabile straniamento e isolamento (due anni totalmente lontano e ignaro di tutto) non ha portato all’annichilimento della nostra storia, ma a una famiglia, unita sempre da un tenace affetto condiviso.

Il libro si apre con la sua visita al campo di prigionia a Moosburg, in Germania, dove fu rinchiuso suo nonno paterno: da cosa è stata messa in moto questa visita?

I racconti di mio nonno erano sempre piuttosto contenuti. Solo con gli anni ho capito che per lui doveva essere dolorosissimo ricordare (mia nonna diceva sempre che dopo la deportazione non fu più lo stesso). Ma scrivendo questo libro non potevo fare a meno di fare i conti con questa storia privata e familiare. A un certo punto avevo bisogno di vedere. Dopo tante ricerche (il libro ha avuto una gestazione di dieci anni), ho capito che non avrei potuto compiere la mia indagine senza affrontare una volta per tutte l’incontro con i luoghi di deportazione di mio nonno. Come unico indizio avevo la sua piastrina di riconoscimento che indicava lo Stalag di internamento. Poi, lo straordinario incontro occasionale con un altro carabiniere deportato nello stesso gruppo, ha aperto il sentiero che mi ha portato in Germania, a Moosburg.

A cosa si riferisce la frase di Adorno secondo la quale «dopo Auschwitz non si può più scrivere poesia»? E che valore ha per noi oggi? Per Celan, invece, non solo è possibile ma anzi è assolutamente necessario scrivere poesia dopo Auschwitz.

Non ho certamente la presunzione di confrontarmi con il pensiero filosofico di Adorno, ma quella affermazione, anche solo come metafora, è un assunto smentito dalla storia (almeno per come comprovato dalle testimonianze che ho raccolto). L’Arte si oppone al nulla che incede, lo sovrasta, ma non come gesto “politico” (come oggi si tende banalmente a ripetere). L’Arte viene semmai prima e direi in un’altra dimensione, rispetto al gesto ideologico, in quanto scaturisce da una urgenza intima dell’uomo di riaffermarsi, a dispetto di ogni orrore, nella sua creaturalità universale.

A cosa fa riferimento questo bisogno di salvezza di cui «le storie si fanno portatrici», e soprattutto da cosa bisogna salvarsi?

Un capitolo del libro (n. 24 Entartete kunts) è dedicato all’attenzione che avevano i nazisti per le opere d’arte. È questa una vicenda paradossale, uomini razionalmente dedicati alla più atroce violenza verso i propri simili, che si dedicavano contemporaneamente alla conservazione dell’arte, ad una cultura estetica. Mi sono interrogato a lungo su questa grottesca discrasia e alla fine sono giunto all’idea che si tratti dell’esempio più allucinante di ciò che in fondo siamo. Uomini capaci di sublimi elevazioni ma anche di orribili bassezze. Da cosa possiamo e dobbiamo salvarci? Da noi stessi, credo. Ma è chiaro che da soli, affidandoci soltanto all’intelletto, non riusciamo a farlo. Allora, abbiamo bisogno di un sostegno più forte, immanente, profondo.

In che senso l’arte e la letteratura possono dare voce al desiderio di salvezza?

L’Arte risponde a una necessità profondissima dell’uomo. Chi si dedica all’Arte, alla poesia (anche come semplice fruitore e non autore) chiede di leggere la realtà in filigrana, di tradurre una verità altrimenti intraducibile con i sensi immediati. In fondo chiede di riscattare la propria umanità di fronte alla mera esistenza materiale. Così facendo, rivolge lo sguardo ad un orizzonte più ampio che travalica la nostra minima ferialità e offre una luce differente e assorbente su tutte le cose. La salvezza è in una prospettiva che addirittura supera (per quanto analitica e scientificamente ricca) la visione tridimensionale che possiamo avere del nostro passaggio terreno.

La poesia, arginata troppo spesso nel puro intellettualismo, non conosce più urgenze di scrittura e si costringe nell’estetismo sintattico, ben lontano dalla consistenza delle cose. La nostra poesia contemporanea è ancora capace di illuminare il silenzio, dare voce all’orrore, implorare salvezza?

La poesia, l’Arte, deve sempre aderire alla realtà ed è un’esperienza di conoscenza nella misura in cui accede a una verità (che sia particolare o collettiva poco importa). L’intellettualismo letterario invece, agisce nella sfera dell’intrattenimento, per quanto sofisticato, della lingua in un certo tempo e in uno spazio. Ma la vera ricerca artistica proietta il sentire ben oltre le percezioni sensoriali convenzionali. Però, voglio dire che oggi la poesia è viva più che mai. Nel definitivo tramonto delle ideologie, quando l’umanità risponde innanzitutto a bisogni primari (la fame, la sicurezza, la salute, eccetera), sono molte (anche giovanissime) le voci poetiche che compiono questo scarto di visione nella vastità di un cielo più ampio.

Perché il binomio poesia/preghiera accompagna da sempre tutte le religioni?

Quando preghiamo, lodando il Signore, confessando le nostre mancanze o invocando l’aiuto del Padre, prima di tutto sublimiamo le nostre esperienze, le prosciughiamo dalle scorie dei giorni, le rendiamo essenziali, perciò autentiche. Anche il (vero) poeta non si accontenta di riassumere i fatti del vivere, ma li vuole accogliere in un sentire che sia il più puro possibile. Nel fare ciò, il poeta non pretende di avere risposte, ma si abbandona al mistero dell’esistenza, esattamente come chi prega. A me piace molto la prosa. Ma, nessuno prega in prosa.

di Elena Buia Rutt