Lo splendido volume di Paolo Portoghesi «Borromini. La vita e le opere»

L’architettura è un’arte «parlante»

Il cortiledel palazzo della Sapienza
24 luglio 2020

È un’eredità «sconvolgente» quella lasciata da Francesco Castelli, che a ventotto anni cambiò il cognome in quello di Borromino o Borromini. L’aggettivo è utilizzato in modo calzante e a ragion veduta da Paolo Portoghesi nella premessa al suo splendido libro intitolato Borromini. La vita e le opere (Milano, Skira editore, 2019, pagine 630, euro 90): è sconvolgente perché tale eredità s’impone per la sua ricchezza, per la sua articolata e spumeggiante varietà, nonché per la sua vicinanza con i problemi della cultura moderna.

Ecco allora che il volume, tenendo conto del dibattito critico e filologico sviluppatosi nel corso del tempo sull’opera di Borromini, si prefigge di mettere a disposizione degli studiosi uno strumento che stimoli ad indagare tutti gli aspetti — architettonici, simbolici, filosofici, religiosi — di un’eredità appunto sconvolgente, che non finisce mai, ogni volta che viene posta al vaglio degli esperti, di produrre talenti di eccellente valore.

Portoghesi guida il lettore per mani lungo un tragitto — corredato e impreziosito da un suggestivo apparato di immagini — che ripercorre la produzione borrominiana e il corpus dei disegni originali. Si entra così nel laboratorio progettuale dell’architetto (e dei suoi collaboratori) coadiuvati da una documentazione fotografica che rappresenta un invito a scoprire, scrive Portoghesi, «l’inesauribile capacità creativa che va dall’organismo al più minuzioso dettaglio, dall’esemplare bellezza del semplice all’inesauribile complessità dell’intreccio tra forme e significati».

Nell’introduzione dell’Opus Architectonicum si legge: «Non mi sarei mai posto a quella professione, col fine d’essere solo copista». Borromini — rileva l’autore — ha voluto dare a queste parole il valore di una dichiarazione di principio, ma la ricerca del nuovo, osserva, non implica per lui la negazione del passato. Di conseguenza chi ha tentato di interpretare questa asserzione e, in genere, l’opera borrominiana nel senso di una violenta rottura con la tradizione «si è trovato poi nell’impossibilità di conciliare una tale poetica con la verità dei fatti, con l’infinita rete di relazioni che legano il linguaggio di Borromini alla storia».

Per chi è abituato a considerare inconciliabili tradizione e innovazione, tolleranza e rigore, ragione e sentimento, forza e dolcezza, l’opera di Borromini — afferma Portoghesi — è «destinata a rimanere misteriosa e contraddittoria giacché l’obiettivo della sua ricerca è la sintesi produttiva degli opposti, la dimostrazione di una sostanziale relatività dei valori della forma». Del resto la molteplicità delle fonti che hanno contribuito a formare il suo gusto e il suo stile è tale da mettere in imbarazzo» chi voglia rintracciare scelte univoche e definitive e da costringere, contro ogni schematica conclusione, a ricostruire l’intero arco di una formazione autodidattica, «rivolta non solo alla conoscenza della cultura del tempo, ma anche all’individuazione delle sue radici storiche».

In tale senso Portoghesi usa la significativa espressione «il ritorno umanistico» di Borromini per indicare il senso della sua ricerca d una rifondazione teorica dell’architettura come fatto di conoscenza: un percorso questo che si snoda lungo una traiettoria che vede Borromini passare da umile artigiano ad architetto e, nel contempo, a protagonista di un fervido dibattito culturale.

All’interno di un’impostazione tanto rigorosa quanto chiara, Portoghesi articola l’indagine della produzione borrominiana in distinte tappe: un capitolo è dedicato alle prime opere: un altro alle opere della maturità; un altro ancora è focalizzato sulle ultime opere. Segue quindi un capitolo che si concentra sulle opere minori, non realizzate o distrutte. Se l’eredità è sconvolgente, il lettore, parimenti, non può non rimanere sconvolto nel ripercorrere una produzione così vasta e lussureggiante, cui mai fa difetto, nonostante l’imponente mole di lavoro accumulata, la qualità, sempre eccelsa.

Palazzo Barberini e San Carlo alle Quattro Fontane fanno parte delle prime opere. La Biblioteca Alessandrina, il palazzo della Sapienza, San Giovanni in Laterano, Palazzo Pamphili a piazza Navona, Palazzo Giustiniani, Palazzo Carpegna (tanto per citarne alcuni) appartengono alle opere della maturità. All’ultima fase della sua produzione risalgono, tra li altri, il collegio di Propaganda Fide, Sant’Andrea delle Fratte, la sagrestia di San Pietro, la cappella Falconieri. Tra le opere minori, ma pur sempre di elevata e squisita fattura, figurano il romitorio del cardinal Barberini a Monte Mario, l’altare maggiore di Sant’Anastasia, la biblioteca Angelica in piazza sant’Agostino, villa Martinelli a Monte Arsiccio.

Particolarmente interessante è la sezione del libro dedicata al linguaggio di Borromini e al colore: l’analisi, in merito, muove da una prospettiva di carattere psicologico. Portoghesi, infatti, afferma che un aspetto determinante della psicologia borrominiana è il suo modo di intendere il proprio lavoro. Da giovane, per parecchi anni, egli esercitò il mestiere dello scalpellino, cercando così di guadagnarsi da vivere. Ma quando decise di fare l’architetto, non volle alcun compenso, e offrì la sua opera gratuitamente «sapendo che questo disinteresse è anche una garanzia di libertà».

Al contempo Portoghesi mette in rilievo il fatto che Borromini tendeva a forzare i limiti dell’architettura come arte dotata di strutture autonome per farne un’arte “parlante”, ovvero con un suo linguaggio che si avvicini a quello verbale con il dichiarato obiettivo di coinvolgere l’immaginazione, il pensiero e il sentimento.

Rispetto all’architettura di tradizione classica (in cui il codice poggia su un’interpretazione oggettiva dei rapporti tra gli elementi costruttivi e sul riferimento a una serie di proporzioni privilegiate, ispirate alla lettura geometrica del corpo umano) l’architettura borrominiana tende a distinguersi attraverso l’uso generalizzato di “figure” che hanno analogie con quelle di tipo letterario. «La colonna della tradizione classica — spiega Portoghesi —, che è sostegno o strumento di suddivisione ritmica, tende ad arricchirsi di connotazioni variabili, diventa così contrafforte, smusso angolare e persino tirante o asse di un movimento rotatorio suggerito alla percezione soggettiva».

Nella stessa ottica, la cornice, che è la sublimazione linguistica del trave e delle strutture di copertura, «diventa un mezzo di collegamento sollecitato da una tensione interna che si oppone alla disgregazione dell’organismo, mentre la sua triplice stratificazione in architrave, fregio e cornice è utilizzata — spiega Portoghesi — per calibrare l’intensità del collegamento tra gli elementi del telaio e stabilire una gerarchia, lasciando prevalere ora la continuità degli elementi verticali ora quella delle ripetute cuciture orizzontali».

Tra le figure del linguaggio borrominiano spiccano la metafora, l’antitesi, l’allegoria, la prosopopea. Come pure riveste un ruolo significativo l’ossimoro, tanto caro ai letterati del Seicento. Tale figura, osserva Portoghesi, costituisce «il lato paradossale» della sua architettura, la quale è intessuta «di scelte rivoluzionarie e di sottili analisi storiche, di violenti episodi plastici e di delicatissime vibrazioni». In tale scenario non poteva dunque mancare l’ossimoro, che si risolve nell’accostamento di due situazioni contraddittorie. È allora facile constatare «la morbida durezza» dei celebri balaustri triangolari dell’Oratorio dei Filippini, di San Carlino o dell’altare Filomarino, dove la superficie increspata dagli spigoli è resa soffice dalla curvatura concava, dalla torsione che produce effetti di sfumato e «sembra evocare, sotto la liscia pelle tirata, una struttura rigida, una sorte di scheletro lineare». Nel loro insieme le operazioni del linguaggio borrominiano — dichiara l’autore — configurano un metodo in cui ragione e sentimento, calcolo ed emotività si fondono come aspetti di una volontà unitaria di liberazione dal dogma di una classicità intesa come principio di autorità e come insieme di regole immutabili. Una liberazione che postula anche il sottrarsi a un tecnicismo miope e rinunciatario della generazione precedente, e all’empirismo generico e approssimativo dei suoi rivali, assorti nella celebrazione del presente.

«È liberazione — scrive Portoghesi — dalle inibizioni che l’evoluzionismo vasariano aveva instaurato verso le testimonianze del passato che non rientravano nella genealogia ufficiale dell’arte rinascimentale. È liberazione dal linguaggio architettonico da una specificità e da un’autonoma purezza affermata a danno dell’efficacia comunicativa».

di Gabriele Nicolò