Figura storica della lotta all’apartheid in Sud Africa

In memoria di Andrew Mlangeni

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28 luglio 2020

L’Africa ha da sempre i suoi eroi di cui è importante fare memoria perché, come è avvenuto nella storia degli altri continenti, nel proprio passato vanta non pochi personaggi che hanno lasciato il segno. L’ultimo a essere passato a miglior vita è il celebre attivista anti-apartheid sudafricano Andrew Mlangeni che si è spento la scorsa settimana alla veneranda età di 95 anni, nell’ospedale militare di Pretoria, dove era ricoverato dal 14 luglio scorso, a seguito di complicazioni non meglio precisate.

Chi scrive ebbe modo di incontrarlo negli anni ‘90, durante il mandato presidenziale del premio Nobel per la Pace Nelson Rolihlahla Mandela, detto anche Madiba. Quella di Mlangeni è stata certamente una vita rocambolesca che lo scrittore sudafricano Mandla Mathebula descrisse molto bene in una biografia dal titolo «Backroom Boy» (Paperback, 2017).

La notizia della scomparsa di Mlangeni ha suscitato sentimenti di profondo cordoglio in tutto il Paese. Il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa in un tweet ha dichiarato «di aver appreso con profonda tristezza la notizia della sua scomparsa nella notte» tra martedì e mercoledì scorsi. La sua morte, alla prova dei fatti, «segna la fine di una generazione e mette il nostro futuro nelle nostre mani», ha commentato poi il presidente Ramaphosa. In effetti è stato un personaggio che ha lottato contro la segregazione razziale entrando a far parte nel 1963, appena rientrato da un corso di addestramento militare in Cina, dell’alto comando del movimento armato Umkhonto we Sizwe (“Lancia della Nazione” nelle lingue Zulu e Xhosa), dell’African National Congress (Anc). Una militanza che durò fin quando la polizia sudafricana organizzò una retata in una fattoria del sobborgo di Rivonia, non lontano da Johannesburg. Tredici leader, bianchi e neri, dell’Anc e della Umkhonto we Sizwe, vennero arrestati. Tra loro vi era anche Mlangeni. Poco prima, aveva subito la stessa sorte il grande Madiba. Il regime di Pretoria era deciso a condannare a morte questi combattenti per la libertà: non solo come monito ai loro sostenitori ma anche per decapitare il movimento di liberazione. Teniamo presente che il contesto era quello di un Paese, il Sud Africa, in cui i gruppi etnici autoctoni afro costituivano nel complesso l’80 per cento della popolazione e nel quale la discriminazione aveva raggiunto livelli a dir poco aberranti: dalla legge che proibiva agli afro di utilizzare le medesime strutture pubbliche dei bianchi (le sale d’attesa, le fontane, i marciapiedi), a quella che consentiva loro di frequentare i quartieri bianchi solo utilizzando speciali lasciapassare; dal divieto dei matrimoni interraziali alla legge che considerava i rapporti sessuali tra bianchi e afro un reato penalmente perseguibile. Le vicende del celebre processo intentato nel 1963 e conclusosi l’anno dopo, contro il leader del movimento anti-apartheid e i suoi seguaci passò alla storia come il processo di Rivonia e gli imputati vennero condannati all’ergastolo. Mlangeni finì a Robben Island e classificato come detenuto con il numero 467/64; la sua cella era quella accanto al numero 466/64, ovvero Nelson Mandela. Vennero rilasciati, com’è noto, dopo aver trascorso 26 lunghi anni dietro le sbarre. Successivamente, Mlangeni, personalità sempre molto schiva — amava definirsi un “uomo dietro le quinte” — divenne membro del parlamento sudafricano, presidente della commissione per l’integrità dell’Anc e poi fondatore della fondazione “June e Andrew Mlangeni”. Con la scomparsa di Ahmed Kathrada (marzo 2017) e Denis Goldberg (aprile 2020) Mlangeni era l’unico imputato del processo di Rivonia ancora in vita. È stato «l’ultimo monumento di una generazione coraggiosa di sudafricani che hanno rinunciato alla loro libertà, alle loro carriere, alla loro vita familiare e alla loro salute affinché fossimo tutti liberi», ha commentato l’arcivescovo anglicano, Desmond Tutu, vincitore del premio Nobel per la pace. «Ora spetta ai giovani — ha aggiunto — riprendere il testimone che hanno tenuto e terminare il cammino».

Lungi da ogni retorica, Mlangeni ha rappresentato, per chi ha avuto il dono di conoscerlo da vicino, un personaggio che ha condiviso profondamente la visione di Mandela, quella del nuovo Sud Africa. Condivise, in particolare, con Madiba l’incomprensione profusa in più circostanze dai reazionari e dai progressisti. I primi li accusarono di essere esponenti del terrorismo comunista; mentre i secondi li giudicarono troppo frettolosi e ingenui nel voler negoziare la pace con i sostenitori dell’apartheid. Sta di fatto che per la loro moderazione e la scelta nonviolenta, maturata nei lunghi anni di carcere, ottennero il plauso internazionale. Mlangeni, come d’altronde Mandela, credevano fermamente nei diritti dei popoli afro, sostenendo al contempo la necessità di affermare l’unità nazionale, attraverso una piattaforma condivisa sulla verità e la riconciliazione. Ambedue non vollero che i loro carcerieri soffrissero il loro stesso destino, quelle orribili nefandezze che essi avevano subito. Come Mandela, Mlangeni era fermamente convinto che per garantire la liberazione e il riscatto dei gruppi etnici afro, era necessario evitare che la vendetta prendesse il sopravvento. Mlangeni fece sue, davvero sue, queste memorabili parole di Mandela, condividendole fino in fondo, con il cuore e con la mente: «Ho combattuto contro la dominazione bianca e ho combattuto contro la dominazione nera. Ho accarezzato l’ideale di una società democratica e libera in cui tutte le persone vivano insieme in armonia e con pari opportunità. È un ideale per il quale spero di vivere e che spero di raggiungere. Ma, se sarà necessario, è un ideale per il quale sono pronto a morire».

di Giulio Albanese