Il 10 luglio di 190 anni fa nasceva il pittore francese Camille Pissarro

Impressionista (con riserva)

«Due giovani contadine» (1892)
09 luglio 2020

Il padre avrebbe voluto che diventasse merciaio, perché così avrebbe garantito alla famiglia un reddito stabile e sicuro, ma Camille Pissarro sentiva urgere in sé, sin da ragazzo, la passione per la pittura. Colui che si sarebbe imposto come uno dei maggiori esponenti dell’Impressionismo si era visto costretto, per sfuggire al rigoroso controllo paterno, a dipingere di notte in un casolare e nascondere qui le tele che veniva producendo. Era nato nelle Isole Antille (all’epoca note come Indie Occidentali il 10 luglio di 190 anni fa) e da quelle Isole era fuggito per cercare fortuna in Venezuela. Prima di partire, aveva conosciuto un pittore danese, Fritz Malbye, allora artista di rinomata fama, il quale aveva intuito il talento del giovane e lo aveva quindi incoraggiato a perseverare lungo il cammino della creazione artistica.

Fu dunque in Venezuela che Pissarro eseguì i primi lavori, fatti anche con l’obiettivo di racimolare denaro sufficiente per pagarsi il viaggio in Europa, ben consapevole che era in questo continente che avrebbe trovato terreno fertile per realizzare le sue legittime ambizioni. E non aveva torto. Fu infatti in Francia che Pissarro potè intraprendere una carriera destinata a consacrarlo quale pittore d’eccellenza. A Parigi, dove vibrava un coinvolgente fervore artistico, ebbe modo di conoscere Claude Monet e Paul Cézanne, che con lui condividevano l’acuta insofferenza sia per gli stantii convenzionalismi accademici sia per la “dittatura artistica” dei Salons, ovvero quelle esposizioni periodiche dove le opere erano poste al vaglio di una giuria che salutava con favore i dipinti ligi alla tradizione e respingeva quelli che invece deviavano dalla norma e dalle protocollari coordinate.

Dopo lo scoppio della guerra franco-prussiana, Pissarro si rifugiò a Norwood, alla periferia di Londra. Fu nella capitale britannica che incontrò Paul Durant-Ruel, mercante d’arte, che con mirabile lungimiranza scoprì il valore degli impressionisti in un periodo in cui erano ignorati, se non disprezzati. Quando tornò a Parigi, nel 1871, ebbe una sorpresa assai amara. Rimesso piede nel suo atelier, vide che molti dei 1.500 dipinti che aveva realizzato in più di vent’anni erano stati saccheggiati o distrutti dalle milizie prussiane. Ma l’artista non si perse d’animo e riprese a lavorare con indefessa lena. Nel contempo era impegnato a scoprire “i veri talenti” tra i tanti giovani aspiranti artisti che a lui si rivolgevano per consigli e direttive. Anche in questo campo Pissarro si dimostrò all’altezza, avendo intuito il genio di un giovane pittore di nome van Gogh.

Fu la vista, che nel trascorrere degli anni, subì un forte abbassamento, a ridurre il sostenuto ritmo della sua produzione. Si era poi aggiunto il problema, non meno serio, di un’intensa fotosensibilità, per cui era costretto a dipingere guardando la realtà circostante dai vetri delle finestre degli alberghi nei quali alloggiava. Un contemporaneo, in merito, così scrisse: «Lo si poteva vedere da mattina a sera, un vegliardo dalla lunga barba bianca, davanti alla finestra e al cavalletto, la tavolozza in mano, un berretto in testa, lo sguardo acuto e sereno».

Da Strada verso Versailles a Due giovani contadine, da Abitazioni contadine a Boulevard Montmartre, effetto di notte, si sviluppa un percorso artistico caratterizzato da alcuni capisaldi sui quali Pissarro costruì la sua concezione pittorica. Su di lui esercitò una notevole influenza la lezione dei pittori di Barbizon (Jean-Francois Millet, Jean-Baptise Camille Corot, Théodore Rousseau) i quali propugnavano l’esigenza di trascrivere sulla tela il paesaggio senza diaframmi e senza svolazzi (prediligendo, tra l’altro, i soggetti di umile estrazione sociale): al contempo, esortavano a favorire il gioco degli effetti cromatici e luminosi. Non meno significativa fu l’influenza legata alle antichissime stampe giapponesi, dalle quali Pissarro derivò un’atmosfera fluttuante, quasi fiabesca. Scrive il pittore: «È meraviglioso. Ecco che cosa intravedo nell’arte di questo sorprendente popolo: niente che salta immediatamente all’occhio, una calma, una grandezza, un’unità straordinaria, una radiosità tenue e sommessa».

«Bisogna eseguire molto e fare molta pratica per far sì che la cosa dipinta diventi familiare» soleva ripetere Pissarro, manifestando così scetticismo riguardo alla poetica dell’attimo e della fuggevolezza teorizzata dagli altri impressionisti, in particolare da Monet. Su questo discrimine si misura il grado di adesione, sì partecipata e convinta, ma non radicale, ai canoni dell’arte impressionista da parte di Pissarro, il quale, tra l’altro, non esauriva la sua pittura (come gli altri compagni di cordata) nella paesaggistica, ma la apriva, arricchendola, alla dimensione umana, con l’attenta descrizione delle fattezze dei soggetti eletti a protagonisti delle tele. Tuttavia la critica concorda nel rilevare una certa staticità nella descrizione delle figure: una staticità che acquista un risalto ancora maggiore se paragonata al frizzante dinamismo che anima i soggetti di Edgar Degas.

Quando l’Impressionismo entrò in crisi e i suoi maggiori esponenti finirono per seguire ciascuno un percorso personale, dettato dalla propria sensibilità, anche Pissarro si ritrovò a «fare i conti con sé stesso», cercando una nuova identità. Pensò di averla trovata abbracciando l’indirizzo del Divisionismo — il cui alfiere era Georges Seurat — caratterizzato dalla separazione dei colori in singoli punti o linee che interagiscono tra loro in senso ottico. Appartengono a questa fase Donna in un campo, Isola Lacroix, Rouen effetto di nebbia. Ma l’idillio con il Divisionismo non durò a lungo. Pissarro, infatti, non trovava congeniale una tecnica che imponeva sostanzialmente un approccio teorico e schematico, dunque poco propizio per un’indole come le sua, spumeggiante e votata a un contatto vitale con la natura e le sue diverse manifestazioni. Come a suggellare il distacco definitivo dal Divisionismo, Pissarro. In una lettera indirizzata a un amico, scrisse: «Dopo aver sperimentato questa teoria per quattro anni per poi abbandonarla, non mi posso più considerare un neo-impressionista. Quella neo-impressionista era una tecnica che non mi consentiva di essere ligio alle mie sensazioni e che, pertanto, mi impediva di rappresentare la vita, il movimento: né potevo essere fedele agli effetti ammirevoli e caotici della natura, o magari conferire un carisma al mio disegno. Alla fine ho rinunciato».

di Gabriele Nicolò
 

«La raccolta dei piselli»


È tornato ai legittimi proprietari il quadro La raccolta dei piselli dipinto, nel 1887, da Camille Pissarro. La tela era stata trafugata dai nazisti durante l’occupazione di Parigi e quindi sottratta al collezionista ebreo Simon Bauer, industriale appassionato d’arte. Il quadro, in precedenza, era stato prestato al museo Marmottan-Monet di Parigi da Bruce e Robbi Toll, coppia di collezionisti americani. Gli eredi Bauer — riferisce «The Times» — nel visitare una retrospettiva dedicata a Pissarro, nel gennaio 2017 dal museo Marmottan-Monet, riconoscono il quadro, sanno che un tempo apparteneva al loro antenato e decidono di rivolgersi alla giustizia. Dopo oltre tre anni di battaglia legale, è arrivata, in questi giorni, la sentenza della Corte di cassazione francese: «La raccolta dei piselli tornerà definitivamente alla famiglia Bauer». La tela era sta messa all’asta da Christie’s New York nel 1995, e ad aggiudicarsela furono i collezionisti Bruce e Robbi Toll per 800.000 dollari. Quando i discendenti hanno visto e riconosciuto il quadro, hanno chiesto il sequestro sulla base del decreto del 21 aprile 1945, che dichiara nulli gli espropri commessi durante il periodo collaborazionista di Vichy. I Toll, che pensavano di essere i legittimi proprietari del quadro, non ne sono più rientrati in possesso, e a loro volta hanno fatto ricorso alla magistratura. La Corte, sentite le parti in causa, ha stabilito dunque che La raccolta dei piselli tornerà ai Bauer, pur riconoscendo la buona fede dei Toll. (gabriele nicolò)