LABORATORIO - DOPO LA PANDEMIA
Riflessioni dalla Consulta scientifica del Cortile dei gentili

Il virus e gli anziani:
storia (e futuro)
di un’ingiustizia dichiarata

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16 luglio 2020

Dal volume «Pandemia e resilienza. Persona, comunità e modelli di sviluppo dopo la Covid-19» (Consulta scientifica del Cortile dei gentili, Cnr Edizioni, Roma, 2020) pubblichiamo il seguente contributo.

Nel gennaio del 2017 il governo del Regno Unito, presieduto da Teresa May, decise di istituire un ministero per la “solitudine” (Loneliness), qualificata come una sad reality of modern life. Indagini sociologiche di tutto rispetto avevano evidenziato la situazione di isolamento sociale (accettata, ma non intenzionale) di almeno nove milioni tra i sudditi della Regina, una situazione tale da alterare in modo significativo i requisiti minimali di eguaglianza che sono comunemente ritenuti costitutivi di uno stato moderno, soprattutto se a fondamento democratico. Quali gli effetti socialmente verificabili della Loneliness? Una contrazione della speranza media di vita, maggiori probabilità di contrarre patologie particolarmente gravi, trattamenti sanitari (e in particolare ospedalieri) di qualità scadente, soprattutto se paragonati a quelli offerti a pazienti dotati di un supporto familiare, una maggiore fragilità sul piano sociale, identificabile come minore capacità di far valere i propri diritti fondamentali nei confronti dello Stato e dei servizi pubblici. È interessante rilevare che in Europa alcuni paesi, più di altri, si sono interessati all’iniziativa anglosassone (la Germania, le nazioni scandinave, l’Olanda) e hanno aperto dibattiti pubblici sull’opportunità di imitarla. In Italia, e più in generale nei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, la notizia proveniente dal Regno Unito è stata accolta più come una curiosità, o come una provocazione, piuttosto che come un’iniziativa sociale meritevole di essere recepita e attivata. Eppure, la questione è di importanza primaria. Non c’è alcun dubbio che il principio di eguaglianza sia costitutivo della modernità, sia a livello etico e religioso sia politico e che esso non possa conoscere eccezioni di sorta, soprattutto per quel che concerne la dimensione anagrafica (si ha il diritto di essere considerati “persone” e di godere pienamente degli stessi diritti dalla nascita fino alla morte).

Tra i diritti che comunemente riteniamo “non negoziabili” poniamo in prima linea il diritto alla salute, come diritto non solo alla “cura”, ma anche al potenziamento del benessere fisico. Di conseguenza, ci siamo abituati a rigettare con fermezza quella che è stata efficacemente definita la “cultura dello scarto”, la cultura che discrimina i soggetti più “deboli”, ponendoli al margine della vita sociale. È una cultura, quella dello scarto, che suscita indignazione diffusa e che perciò merita di essere combattuta, perché proietta su coloro che vengono “scartati” (e a maggior ragione su coloro che vengono ritenuti meritevoli di essere scartati) un arrogante giudizio di negativa e soprattutto intrinseca mediocrità. La questione solleva problemi inquietanti, di cui non tutti sembra che abbiano preso adeguata coscienza: ad esempio, non c’è dubbio che molte volte le condizioni di salute che attivano pratiche discriminatorie siano da rapportare a stati e a stili di vita la cui responsabilità va addebitata alle persone stesse che ne soffrono (tormentosa e irrisolta, tra le tante, la questione delle persone in stato di dipendenza cronica da psicofarmaci). Ma non è nemmeno da mettere in dubbio che l’essere aggrediti da malattie di elevata gravità o il venir piegati da impreviste o imprevedibili disabilità dipendono in larga misura dalla casualità e sotto un duplice profilo: è ampiamente casuale la costituzione del patrimonio genetico dei singoli individui, cui va attribuita la causa di molte patologie, ed è parimenti ampiamente casuale essere travolti da eventi che ledono l’autonomia fisico-relazionale delle persone e le feriscono alterando la loro ordinaria condizione di benessere. Il linguaggio quotidiano sembra essere molto sensibile a questi particolarissimi aspetti dell’esistenza, come si può rilevare osservando (dato che il verbo “salutare” ha la sua evidente radice etimologica nel termine salus) il carattere implicitamente augurale che possiedono i “saluti”’ che si scambiano due persone quando si incontrano (e, all’inverso, il carattere non solo ostile, ma malaugurante, che è intrinseco all’intenzionale “togliere il saluto” a qualcuno). Potremmo fermarci qui, dopo aver svolto queste considerazioni tutto sommato ben banali: se è opportuno soffermarci su di esse, nelle considerazioni che seguono, dipende dal fatto che la pandemia da nuovo coronavirus sta alterando questo paradigma e in modo particolarmente subdolo.

Partiamo da una notizia, solo apparentemente aneddotica, che è stata riferita in modo molto rapido, e direi addirittura frettoloso, da ben pochi organi di stampa. Risulterebbe dunque che in Olanda, nel pieno dell’attuale pandemia, tutti gli ultra settantenni avrebbero ricevuto dalle autorità sanitarie del loro Paese un modulo, con un forte invito a sottoscriverlo: firmandolo, essi si sarebbero impegnati, ove colpiti da patologie conseguenti all’infezione da nuovo coronavirus, a rinunciare al ricovero ospedaliero per non sottrarre posti a chi avesse avuto più possibilità di loro di guarire grazie alle terapie di alto profilo offerte esclusivamente nei nosocomi (in buona sostanza per non ostacolare le cure a favore di chi fosse più giovane e mediamente più sano e quindi più suscettibile di guarigione). Sembra anche che l’invito alla firma sia stato ampiamente raccolto. Si potrebbero avanzare diverse spiegazioni psico-sociologiche in ordine a questa massiccia adesione alla proposta di sottoscrivere una simile direttiva anticipata di trattamento (anzi, di “non trattamento”) obiettivamente problematica, perché non calibrata sulla situazione clinica individuale dei singoli ultra settantenni firmatari, ma su un parametro di carattere assolutamente formale, quello della fascia d’età di appartenenza, indipendentemente dal loro essere malati, sia pur potenziali. Probabilmente chi ha predisposto il modulo ha pensato da una parte alla difficoltà di predisporre strutture ospedaliere in grado di accogliere l’elevato numero di malati inevitabilmente prodotti da una pandemia e sull’opportunità di indurre molti malati ad accettare terapie domiciliari (per quanto di ridotta efficacia), capaci di ridurre la pressione sanitaria, dall’altra è anche possibile pensare che col modulo di cui si è detto si sia voluto far leva sul carattere nobile e altruistico della proposta, ancorché presentata in forma necessariamente riduttiva e concisa. Le situazioni e gli eventi catastrofali (come da parte di alcuni si dipingono quegli eventi patologici di massa che l’ordinario sistema sanitario e ospedaliero non è in grado di fronteggiare) attivano complessi problemi deontologici e bioetici, tra i quali rilievo preponderante ha la necessità di assumere decisioni rapide e inusuali, come appunto quella, assolutamente tragica, di decidere a chi dedicare le cure più urgenti. A prima vista, sembrerebbe che in Olanda gli stessi “anziani” riconoscerebbero spontaneamente che il progredire dell’età comporterebbe un’obiettiva diminuzione del valore della loro vita, almeno da un punto di vista strettamente sanitario. È proprio così? Spostiamo, almeno provvisoriamente, la nostra attenzione su altri dati: limitiamo la nostra riflessione al numero delle morti, statisticamente impressionante, che si sono verificate nei Paesi occidentali maggiormente colpiti dalla pandemia in molte case di riposo e in Rsa (residenze sanitarie assistite), specializzate in accoglienza delle persone non autosufficienti e in particolare degli anziani e dei malati cronici (ma anche di portatori di handicap, fisici e/o mentali). Il Direttore generale per l’Europa dell’Oms, Hans Kluge, ha dichiarato in una drammatica intervista, diffusa in rete il 23 aprile 2020, che quasi la metà delle persone decedute per covid-19 sarebbero state ospiti di case di accoglienza (e il riferimento non è certamente a persone invitate, come in Olanda, a esprimere una loro qualsiasi volontà sul trattamento fisico, igienico e sanitario che avrebbe dovuto esser loro comunque garantito da queste strutture). Questi dati hanno non solo colpito la pubblica opinione, ma attivato, in particolare in Italia, l’at-tenzione della magistratura, che ha deciso di indagare per accertare se vi siano responsabilità per queste morti che possano gravare sui dirigenti, sui funzionari e sugli assistenti delle Rsa: di responsabilità purtroppo sembra che ne stiano emergendo molte (anche se, soprattutto nel mondo assistenziale cattolico, ci sono istituzioni di accoglienza che si comportano e continuano a comportarsi in modo impeccabile). Si sta ormai cristallizzando un’opinione: la morte di un così elevato numero di anziani andrebbe attribuita all’incuria che caratterizzerebbe la gestione di queste case di accoglienza, incuria meritevole di biasimo morale e di sanzioni civili e penali. Sono stati però ben pochi i commentatori che hanno portato l’attenzione sul fenomeno sociale che sta alla base di questa vicenda e che merita ormai una ruvida, anche se improbabile, presa di coscienza collettiva. Parlo dell’abbandono fattuale da parte delle famiglie degli anziani ormai incapaci di vivere autonomamente la fase terminale della loro vita, anziani incapaci di gestire quotidianamente la propria alimentazione, la propria igiene e le proprie necessità farmacologiche e infermieristiche. Quando parliamo di abbandono, non dobbiamo necessariamente pensare a un abbandono economico. Nelle società occidentali qualificate mediamente da un significativo benessere sociale, si stanno moltiplicando da anni case di accoglienza private, caratterizzate da diversi standard qualitativi e quindi da diversi livelli di costi, case spesso oggetto di accurate ricerche e di vincolanti “prenotazioni”. Poiché ovviamente istituzioni di questo tipo non possono soddisfare le esigenze delle classi economico-sociali di livello più basso, ecco il sorgere di luoghi di accoglienza garantiti da finanziamenti pubblici e da filantropia privata, secondo modalità diverse tra loro, ma tutte in qualche misura omologhe: si tratta di offrire ai grandi anziani privi di autonomia, o dall’autonomia ormai ridotta al minimo, forme di rifugio che ne garantiscano i diritti civili e soprattutto sanitari. L’opinione ormai più diffusa è che sia molto difficile evitare che la terza e la quarta età vadano incontro mediamente a questo destino. Per tornare all’inizio di queste considerazioni, sembra che la Loneliness colpisca più che persone sole, persone abbandonate. Di qui due possibili esiti. Il primo, quello ordinario, che ormai da anni è assolutamente evidente all’osservatore che voglia tenere gli occhi aperti e non automistificarsi, è il rapidissimo crollo psicologico dell’anziano, subito dopo il ricovero, con conseguenze deleterie almeno su due piani diversi: quello della sua identità psicologica e personale, che può andare incontro a forme gravi di alterazione, e quello, ovviamente ancora più grave, della sua salute e della sua stessa sopravvivenza, se non di breve almeno di medio periodo. Questi esiti prescindono dalla “qualità” del luogo di accoglienza; sono conseguenti allo sradicamento della persona anziana dal suo consueto ambiente vitale, dal suo confinamento in orizzonti più ristretti, e soprattutto dalla consapevolezza, che è inevitabile che sorga in soggetti della terza e della quarta età, di aver raggiunto nelle case di accoglienza l’ultima tappa del loro viaggio esistenziale, una tappa che ha i caratteri dell’irreversibilità e che non può essere più modulata a partire dalla loro sensibilità e dalle loro esigenze personali, ordinariamente misconosciute nel nuovo contesto vitale che le accoglie. Il secondo esito su cui dobbiamo richiamare l’attenzione, quello straordinario, che è diventato palese in tempo di nuovo coronavirus, è stato efficacemente sintetizzato da Giuseppe De Rita con l’espressione decimazione di un’intera generazione. Ritorniamo a riflettere sui numeri che abbiamo citato prima e che (non dimentichiamolo!) ci sono stati comunicati dall’Oms. Le case di accoglienza, in particolare quelle per anziani, hanno dovuto contare, tra i propri ospiti, una percentuale fuori dal comune di vittime. Il termine decimazione è tragicamente efficace, perché allude direttamente al carattere impersonale del fenomeno: non si tratta di decessi auspicati, pianificati, né meno che mai orientati; si tratta di morti che hanno improvvisamente acquistato un rilievo statistico, che ha preso alla sprovvista tutti i sistemi sanitari e nei confronti del quale i sistemi hanno cercato di elaborare giustificazioni in genere goffe e ben poco convincenti (tutte centrate sull’imprevedibilità del nuovo coranavirus, delle sue modalità di trasmissione e delle patologie da esso attivate). Tuttavia si tratta anche di una decimazione che non fa altro che anticipare quello che ineluttabilmente avverrà tra qualche anno, quando l’operatore della decimazione non sarà più un virus, ma la stessa, orgogliosa (e per molti nobilissima!) volontà degli anziani, sollecitati e indotti dalle autorità sanitarie del loro Paese a redigere dichiarazioni anticipate di trattamento (come appunto quelle che fan riferimento a una libera rinuncia alle cure), di cui viene ben poco percepito il carattere tragico. Esattamente quello che già sta avvenendo in Olanda, che anche in questo caso, come in quello della legalizzazione dell’eutanasia, sembra che stia anticipando il resto dell’Europa e, forse, del mondo. È doveroso che la magistratura continui il suo lavoro e moltiplichi le sue indagini sulle case di accoglienza e sulle Rsa, per accertare l’esistenza di responsabilità legali. Ma ci sono intere categorie di persone non imputabili penalmente e nei confronti delle quali non si potranno attivare istanze di responsabilità civile, sulle quali però grava una responsabilità umanitaria schiacciante. Si tratta non solo dei figli, dei fratelli o dei coniugi, ma più in generale dei parenti dei tanti e tanti individui non autosufficienti e assolutamente soli che affollano le nostre società. Queste persone non solo estromettono i loro congiunti dalle loro case, ma non si preoccupano di controllare se le residenze cui li affidano abbiano standard dotati di un minimo di decenza: decenza che implica non solo un’adeguata assistenza alberghiera, igienica e sanitaria (oltre che ovviamente, alimentare), ma soprattutto un’assistenza umanitaria, che si espliciti in prossimità, dialogo, interessamento, impegno nei confronti di persone sofferenti nel corpo e nello spirito, tormentate da amnesie, da ansie, da angosce e quasi mai rassegnate alla loro condizione terminale. Ma non minori responsabilità gravano sugli stessi ospiti delle case di accoglienza e delle Rsa: essi sono espressione di un’intera generazio-ne, quella che ha creduto alle esaltanti promesse dei cosiddetti Stati del benessere; una generazione all’interno della quale un numero impressionante di coppie ha rinunciato intenzionalmente a fare figli, come se il tempo non dovesse passare per tutti, come se l’avvento della terza e quarta età non dovesse coinvolgere anche loro, come se le risorse filantropiche e quelle finanziarie pubbliche fossero inesauribili. Questa generazione si trova oggi di fronte a quel futuro che avrebbe ben potuto e dovuto prevedere, fronteggiare e anticipare, ma che si è rifiutata di prendere sul serio, ingenuamente fiduciosa che potesse bastare la solenne proclamazione del principio di eguaglianza (anagrafico e terapeutico) a garantirla. Oggi questa generazione sta dolorosamente prendendo atto che il principio di eguaglianza, pur se ancora non rinnegato da alcuno, sta conoscendo drammatiche torsioni e che le generazioni più giovani (o almeno quelle composte da coloro che continuano a sentirsi tali), come da anni hanno voltato la faccia dall’altra parte di fronte ai problemi della vita nascente, negando a tale fase della vita la stessa dignità che viene riconosciuta (magari a fatica) alla vita già nata, ora la stanno voltando di fronte ai problemi della terza e della quarta età. Che la magistratura continui il suo lavoro. Ma chi è ancora in grado di riflettere, pensi a se stesso, ai suoi cari, alle proprie responsabilità, al mondo in cui vive e che ha contribuito a costruire e che la pandemia da nuovo coronavirus ci sta rivelando in tutta la sua agghiacciante discriminatoria freddezza.

di Francesco D’Agostino