Padre Giovanni Pozzi e la filologia come ascesi

Il fiore icona del mistero teologico

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03 luglio 2020

«L’interpretazione è conversione», un atto essenziale che coinvolge tutta la persona, ha scritto Claudio Mésoniat nel volume di studi dedicati a Giovanni Pozzi (Autori vari, Forme e vicende. Per Giovanni Pozzi, Antenore 1988), cogliendo in pieno il senso del lavoro sterminato sui testi operato dal grande filologo italiano. Nato a Locarno nel 1923, sacerdote e frate cappuccino, formato negli studi alla scuola di Gianfranco Contini a Friburgo in Svizzera, dove occupò la cattedra di letteratura italiana dal 1960 al 1988. Del suo maestro mantenne sempre anche lo stile pedagogico, «lo stare a un tavolino della stessa altezza», convinto che suo compito fosse «aprire problemi di metodo, ma non consegnare ricette in forma dogmatica, introdurre a una verità, ma distrutta e restaurata di giorno in giorno».

Un’opera molteplice, solo apparentemente frammentata in quanto si esprime essenzialmente in saggi ed edizioni critiche di testi, che spazia dall’artificio letterario alla mistica, dall’edizione critica al commento al dipinto, di cui è possibile individuare le linee portanti, la prima delle quali è sicuramente quella del rapporto tra immagine e testo, icona e parola. Pozzi non a caso usa la metafora del gioco per delineare la sua metodologia di ricerca: «L’artista sommo non è tanto colui che infrange la regola quanto colui che varia la consuetudine, così come il buon giocatore non è il baro, ma l’inventore di soluzioni inconsuete nello sviluppo dell’azione ludica — scrive in La parola dipinta (Adelphi 1981) — Gioco e arte si ritrovano unite nelle più oscure zone dell’affettività e dell’irrazionale, dove quello che è detto per antonomasia gioco dello spirito si appaia alla preghiera, allo scongiuro, all’epifania dell’eros».

La lingua e la figura sono gli elementi di questo gioco, e mentre la prima vive di una doppia articolazione, quella del significante e del significato, e dei fonemi che sono in numero ristrettissimo e gerarchizzato ma danno origine a infinite combinazioni, la seconda è un tutto che si presenta alla percezione e alla mente in modo unitario. Gli esempi che ne fornisce Pozzi spaziano dai codici medievali del carme figurato di Rabano Mauro fino ai Calligrammi di Apollinaire. Il numero dei fonemi e la loro collocazione nello spazio del testo scritto creano una numerologia che dai testi mistici di Dionigi l’Aeropagita alle opere di Claudel per secoli ha riempito la poesia e l’oratoria, fino all’iconismo occulto che troviamo anche in autori come Saba.

La relazione tra immagine e teologia è illustrata da Pozzi in saggi di sterminata erudizione, come ad esempio Maria tabernacolo (in Sull’orlo del visibile parlare, Adelphi 1993). Bisogna subito chiedersi quanto il mondo contemporaneo sia in grado di decifrare questo linguaggio: «La veduta di crocifissi, madonne e santi in musei e gallerie, pur suscitando emozioni estatiche profonde, si accompagna a difficoltà di approccio religioso che trascendono il fatto della collocazione in sede diversa dall’originaria. Il visitatore ha presente tutt’al più la loro destinazione al culto, raramente distinguendo fra le sue diverse forme; meno avverte la finalità primaria delle immagini sacre, di render visibile l’invisibile divino; meno la teologia e la spiritualità che le hanno ispirate; meno la risposta di pietà e di fede che il popolo cristiano loro ha tributato. Se l’informazione in materia sacra è declinata nella società, la religione stessa è cambiata. Non solo l’iconografia, ma gran parte della pietà del passato è per noi una lingua morta».

Nella Parola dipinta Pozzi mostra come il libro diventi grazie all’utilizzo dell’immagine un vero dispositivo a più dimensioni. «Il rilievo del fattore iconico fa sì che il carme figurato venga collocato volentieri su supporti diversi dal libro tradizionale: più che nelle vesti di documento scritto appare allora in quelle di documento grafico. I moderni poemi murali non si diversificano talora dalla pubblicità; e uguale fu in altri tempi la destinazione di quella poesia figurale che si accompagnava all’emblematica e all’impresistica» fino a produrre vere e proprie immagini cinetiche, con un effetto ottico dei giochi linguistici e iconografici, come nell’anagramma, quasi stroboscopico. L’erudizione di Pozzi ci conduce in un viaggio attraverso la forma materiale e simbolica delle lettere e dei segni grafici, mostrandoci l’iconicità dell’alfabeto e la simbologia dei numeri, richiamandosi alla virtualità iconica della lingua e della scrittura di Mallarmé.

Nei carmi figurati la poesia integra l’interpretazione del significato linguistico con quella delle figure che intrecciano lettere e immagini, come nei numerosi calligrammi analizzati — stelle, rose, cuori, labirinti, fatti di lettere dell'alfabeto e di versi intessuti in forma anche di quadrati, cerchi e losanghe — in particolare nel volume La parola dipinta — richiamando l’opera di Panofsky che riunisce attività filosofica e le arti del disegno. Negli anagrammi e calligrammi della poesia figurata opera una azione di esibizione e occultamento di matrice teologica, quella del nome impronunciabile di Jahwè: «Un’intimità impenetrabile, misteriosamente nascosta dietro il mutare delle combinazioni. Questo dissolversi del nome in altri nomi è congiunto al fatto rilevante che il nome-programma di Jahwè è impronunciabile: cioè non si realizza mai nel suo significante, ma solo nelle sue permutazioni. L’anagramma è veramente la figura dell’occultamento». L’immagine del libro della natura scritto da Dio eleva poi il carme figurato a icona del cosmo intero, come insegna tutta la speculazione teologica dalla patristica alla scolastica. L’icona non è qui una variante della similitudine ma si carica di un significato metafisico: essa ha luogo quando un uomo diventa uguale a un dio o a un angelo; con l’icona parliamo del visibile tramite l’invisibile, aprendo una dialettica della contraddizione per cui un’assenza si sottrae alla forma e alla presenza. Il meccanismo iconografico va oltre l’ambito strettamente letterario e investe l’uso dell’immagine nella pubblicità e nella propaganda politica. «Il carme figurato come qui lo propongo è un’entità composta da un messaggio linguistico e da una formazione iconica, non giustapposti (come sono l’impresa e il fumetto) ma conviventi in una specie di ipostasi, nella quale la formazione iconica investe la sostanza linguistica. La lingua, pur producendo significati a lei congeniali, viene usata come medium per ottenere significati prodotti normalmente dall’altro ordine di rappresentazione... Non è quindi una semplice coabitazione, ma una simbiosi». Il carme figurato e l’icona aprono a una «storia della scrittura come regno dell’eccesso», dalla battaglia d’amore in sogno di Polifilo al linguaggio della magia, della follia e dei mistici, fino a quello della lode e della visione divina: «Il lodante si trova “depossessato” di sé, mentre nella visione si trova “impossessato” dall’altro», da quel Dio che lo conduce fuori dalle regole linguistiche e letterarie, in quanto irriducibile ai codici umani, non a caso l’ossimoro sarà privilegiato dai mistici. Commentando La Madonna del parto e La Pala di Brera di Piero della Francesca, Pozzi scrive che «l’attestazione verbale, orale e scritta, è solo un aspetto del fenomeno totale, che si componeva di parole e immagini, di gesti e atteggiamenti. Una teologia dell’immagine affiancava perennemente la teologia della parola: predicazione, liturgia, pietà da una parte, arte dall’altra erano allineate in una specie di teoretorica. Questo semplicemente perché parola e immagine sono temi fondamentali della dottrina cristiana... Nel Figlio parola e immagine si ricongiungono. L’incarnazione del Verbo è il fondamento teologico sul quale l’immagine trova la sua legittimazione accanto alla parola. San Giovanni Damasceno, interrogandosi sulla possibilità di raffigurare Dio invisibile, argomenta che, da quando l’incorporeo è diventato uomo e l’invisibile s’è fatto vedere nella carne, raffigurando questa si raffigura l’invisibile e l’incorporeo». Come una sorta di concordanza vivente — che richiama lo stile delle ricerche di Ernst Curtius — Pozzi ne illustra le centinaia di rimandi alla letteratura, all’arte, alla pietà vissuta e ne conclude che «esiste dunque una teologia sulle immagini e una teologia predicata dall’immagine». La Bibbia era il punto in cui tutto confluisce come fecondatrice di sensi rinnovati nella parola e nell’immagine, per cui l’atto dell’esegeta e del predicatore e quello del pittore si fondono nell’interpretazione del dato rivelato, così come quello del lavoro dell’iconologo con quello dello storico della pietà. Per questo non possiamo comprendere l’“ovologia pierfrancescana” della Pala di Brera senza richiamare — magari tramite gli indici della Patrologia Latina del Migne e i repertori mariani — gli scritti di Ruperto di Deutz. Come non è possibile capire Piero della Francesca senza l’esegesi biblica, l’oratoria sacra e la letteratura spirituale. Il riferimento a Ernst Curtius come colui che ha inaugurato il dibattito moderno sul topos letterario è esplicito nel contributo di Pozzi alla Letteratura italiana di Asor Rosa (Einaudi, 1984, ora in Alternatim, Adelphi 1996). Lo spoglio infinito dei testi della Patrologia latina, sulla base di un tema, costituisce la ricerca delle pietre su cui poi si fonda l’edificio dei suoi scritti: la ricerca sui temi si situa al grado più basso dell’’attività critico-letteraria. I temi comuni sono le pietre angolari e il materiale di ripieno della letteratura”, indispensabile per coglierne la ripetitività delle forme e dei contenuti, i topoi, e non solo il capolavoro del genio.

Nel saggio Des fleurs dans la poésie italienne ci fornisce una sintesi emblematica sul topos che lo affascinò costantemente, quello dei fiori, che diventano una delle chiavi per solcare tutta la letteratura, da Francesco d’’Assisi a Montale, da Dante a D’’Annunzio. Come sempre nel suo metodo colpisce la capacità di individuazione dei testi più disparati, l’’intreccio tra letteratura e pittura, e così in questo saggio non mancano i collegamenti con la Primavera di Botticelli o l’Hypnerotomachia Poliphili. Il tema ritorna in saggi come Rose e gigli per Maria. Un’antifona dipinta (ora in Sull’orlo del visibile parlare, Adelphi). Il fiore diventa icona metafisica del mistero teologico e il particolare botanico si illumina di una densità filosofica: nell’alternativa tra il nucleo stabile e il corollario mobile si svolge la storia, fatta di presenze mai rimosse e apparizioni succedanee, dell’’erbario dedicato dalla letteratura spirituale a Maria. Il fiore, in questi discorsi, non era evocato di per sé, ma nel corpo di un contesto dottrinale che riguardava una questione teologicamente fondamentale, quale il ruolo di Maria nel disegno della salvezza e di conseguenza la natura del suo culto”, così la rosa e il giglio diventano i simboli che nella liturgia trasferiscono alla madre di Cristo il significato allegorico della sposa del Cantico dei cantici, tradizionalmente assegnato alla Chiesa. Pozzi attacca immediatamente all’analisi erudita e teologica quella della pietà popolare, come quella del culto mariano o del Sacro Cuore, ne mostra i repertori che hanno raccolto secoli di devozione popolare come la Polyanthea mariana del Marracci del 1683, il più grande repertorio di titoli mariani, senza dimenticare i testi di Riccardo di San Vittore o le prediche mariane sulle allegorie floreali di Maximilian van der Sandt. La “rosa mystica” viene così affiancata da Pozzi alla poesia di Mallarmé e al manzoniano tacito fiore. Dell’intreccio tra botanica e teologia ci fornisce tavole sinottiche che racchiudono i diversi significati simbolici di ogni fiore o pianta con le corrispondenze dei testi di riferimento, come nella Postilla sul fiore mariano.

Ottavio Besomi ha riassunto sinteticamente il metodo di Pozzi. «“Il procedimento generale è: lettura a tappeto dei testi (letterari e non, manuali, repertori); rilevamento puntuale di temi e topoi, fatti linguistici e stilistici affidati a una scheda cartacea; costruzione di uno schedario; poi il passaggio dalla scheda allo schema, dal dato singolo al catalogo, e dal catalogo al discorso organico che descrive e interpreta».

Questo metodo Pozzi lo applicò in gran parte all’analisi della letteratura delle mistiche, argomento che ha attratto di più le scienze umane, la sociologia e la linguistica, o la psicanalisi e la psichiatria come anche la storia sociale, piuttosto che la teologia e la filologia, la prima preoccupata dal rischio dell’eresia che è sempre in agguato nei mistici e la seconda — soprattutto la filologia italiana — interessata più alla produzione religiosa volgare del Due e Trecento dal punto di vista linguistico che al contenuto. «Lo sforzo più ardito e vistoso per il gran pubblico è quello compiuto dalla psicanalisi, che considera la mistica come uno dei modi più significativi con cui l’uomo assume le finalità ultime del desiderio».

Per Pozzi il mistico ha messo sovente a dura prova il vocabolario con cui il teologo lavora, abituato com’è a collaudate distinzioni semantiche, mentre i mistici lo sottopongono al gioco crudele di far dire alle parole ciò che letteralmente non dicono. Il suo lavoro di cura di volumi dei testi delle mistiche italane è fondamentale, dall’antologia Scrittrici mistiche italiane (Marietti, 1988), dal Duecento fino al Vaticano II, curata insieme a Claudio Leonardi, alle mirabili introduzioni ai volumi su Angela da Foligno e Maria Maddalena de’ Pazzi per la casa editrice Adelphi. Si tratta di analisi complesse sul linguaggio mistico che nulla cedono alle semplificazioni di tanta divulgazione alla moda sulla spiritualità: «Il linguaggio dei mistici più che d’altri raggiunge le soglie estreme delle possibilità linguistiche e le varca anche, sprofondandosi per difetto nella glossolalia e nelle voci inarticolate, tracimando per eccesso in giunture lessicali contraddittorie e in insiemi sintattici discontinui — scrive Pozzi nel saggio introduttivo agli scritti di Maria Maddalena de’ Pazzi, Le parole dell’estasi (Adelphi 1984) — I fenomeni trasgressivi dei mistici possono essere descritti nel quadro dei tropi retorici, delle eccezioni grammaticali, degli artifici poetici» ma sono tutti puntualmente stravolti rispetto al linguaggio ordinario, ed è per questo che «piaccia o no, il mistico avanza sull'orlo dell’eresia e sembra non avvertirne l’insidia» (L’alfabeto delle sante, ora in Alternatim, Adelphi 1996). La dialettica del linguaggio dei mistici tesa a rendere presente con le parole colui che resta sempre oltre e assente investe la psicologia, creando una «topografia dell’anima, che ha i suoi luoghi designati: un mare dove si sprofonda; un deserto dove, derelitta, l’anima attende invano la voce dell’altro; una caverna dove si rintana. Sono i luoghi consacrati dalla scrittura sacra per designare epifanie divine; ma sono ricondotti a una topografia tutta nuova, che designa non i luoghi dell’immaginario, ma una mappa dell’interiorità» delineando così una lessicografia della spiritualità. Tra il 1996 e il 1999 Giovanni Pozzi tiene alla Radio della Svizzera italiana le “Letture al caminetto”, dedicate “a chi desidera alimentare la propria educazione sentimentale”. Mirabili le chiavi di lettura che sa dare in poche paginette di testi classici come quelle su L’elogio della follia di Erasmo, «un testo che va letto per diritto e per rovescio, con un continuo mutare di prospettiva, sempre diviso tra candore e malizia. Ci vuole un lettore smaliziato, capace di leggere sulle righe e dietro le righe». Si tratta di un esempio di quella spinta pedagogica che lo ha caratterizzato, dedicando tanta parte della sua vita alla formazione di giovani studiosi a Friburgo e dedicandosi all’’azione pastorale, fedele all’’ideale di far coincidere l’umile e il sublime, facendo da cerniera tra élite e popolo. Un saggio sulla religiosità di Carlo Porta (ora nella raccolta Alternatim, Adelphi) è l’’occasione per Pozzi per dire la sua sul divario tra cultura laica e cattolica in Italia, richiamando il progetto di don Giuseppe De Luca nell’ Introduzione all’ Archivio Italiano per la storia della pietà, «“una disciplina che ’egli tentò di immettere nel vivo delle menti italiane, senza successo mi pare, poiché la diagnosi che fece a suo tempo dell’’atteggiamento italiano verso la pietà mi pare valida anche per il presente». Quel vuoto non è stato ancora riempito, conclude Pozzi con una critica serrata alle recenti imprese editoriali italiane sulla storia e la letteratura, precisando che non vuole essere un attacco antilaicista “perché le lacune ora citate denotano in controluce null’’altro che la spaventosa assenza del clero dal vivo del dibattito culturale italiano e la frattura insanabile fra cultura dei laici e dei chierici. È invece una dimostrazione della difficoltà che il nostro presente colloquio deve affrontare”. Il divorzio tra le culture dei laici e dei chierici consumato in Italia un secolo fa — e che fu oltre che spirituale anche politico — fu accentuato «per via d’un dato non abbastanza presente oggi alle due parti: la soppressione delle facoltà di teologia nelle università statali e la conseguente avocazione della scienza divina ai seminari e istituti ecclesiastici, per cui il discorso telogico è diventato materia riservata».

L’’Hypnerotomachia Poliphili, la battaglia d’amore in sogno di Polifilo, diario onirico del domenicano Francesco Colonna, grandioso viaggio dell’anima rinascimentale verso il puro amore, costituisce una delle sue grandi imprese da editore di testi (l’altra sarà quella dell’Adone del Marino). Il racconto del sogno di Polifilio «realizza precisamente una consustanziazione della parola nella figura» (ora in Sull’orlo del visibile parlare). L’opera, punto di riferimento anche per il Palombara e la famosa Porta Magica di Roma, costituisce una summa della tradizione simbolica neoplatonica e medievale, colma di neologismi iconologici e verbali, sintesi di immagini e testo — con ben 171 disegni sparsi lungo il racconto — finalizzata alla meditazione e all’unione mistica amorosa.

di Luigi Mantuano