L’esperienza dell’amore nella poesia di Enrico Nicolò

Il coraggio del volo

Un particolare della copertina del libro fotografico «Sull’orlo dell’infinito» di Enrico Nicolò
02 luglio 2020

«Fuggevole turchese» la chiamava lo scrittore noir Andrea Pinketts: una bellezza (con la b maiuscola o minuscola poco importa) inaspettata che passa, brucia il cuore, lo segna per sempre con il suo mistero inesplicabile, e se ne va senza avvertire, come senza preavviso era arrivata. Di «fuggevole turchese» sono piene le fotografie di Enrico Nicolò, anche (e forse soprattutto) quando sono in bianco e nero: momenti “perfetti” catturati in uno scatto, promemoria di un’armonia misteriosa destinata a svanire, lasciando però dietro di sé una scia di domande, una richiesta pressante di significato.

«Solo seguo le lamelle diffuse / ed entro nella bruma lucente / fendendo la caligine sospesa» scrive Nicolò, stavolta scegliendo la forma della parola scritta, e l’austero bianco e nero delle parole nelle pagine di A sera prenderò per te una stella. Poesie, canti, ballate (Modena, Palombi editore, 2020, pagine 127, euro 14). In copertina, una donna vista di spalle che guarda fuori dalla finestra mentre si lega i capelli con un fermaglio, con un gesto semplice, domestico, ma carico di fascino; messaggera inconsapevole della profondità misteriosa del reale.

«La tua presenza mi ha donato le vele» scrive l’autore in Quando; grazie all’esperienza dell’amore, della vita condivisa, «di parole ho caricato la mia flotta». La donna torna ad essere icona di bellezza, nella sua visibile manifestazione suprema e Nicolò «non ha paura di configurare intenzionalmente, qua e là perfino cadenze di danza popolare, di ballata medievale e di canto stilnovistico» come nota l’editore nella prefazione «registri e ritmi questi sovente sostenuti dall’uso di ritornelli e da una particolare ricerca iterativa della rima, anche in chiave vagamente ironica». Ma quando la “luce” delle cose sparisce, non c’è traccia di ironia, nei versi di Nicolò.

Quello che sembrava in grado di aprire un varco, si rivela improvvisamente, effimero «come soffioni al primo vento». Si chiude sullo spiraglio di luce intravisto, torna l’opacità del reale, la coltre dell’abitudine che deposita la sua polvere su tutto: «Con me, vecchi attrezzi per il volo». Echi «che non tornano / rimbalzi che non avvengono / riflessi che affievoliscono e muoiono / repliche che non sorgono / ritorni che non accadono».

Le incombenze della quotidianità incalzano, sempre uguali e apparentemente senza senso, e il ritmo si fa concitato: «Suonano alla porta / ci sono altre cose da fare»; «Scusi quanto c’è per la prossima fermata?». La spaccatura che si allarga improvvisamente tra chi si ama è più esplicita in Guardo i tuoi occhi; «Ma il battito di ciglia / che modula il tuo sguardo / mi svela in codice il tuo addio». Lasciando il passo alla nostalgia in Ho abbassato le chiuse della diga; «Ghiaia e pietrisco / e sabbia / Ma infiltrazioni ovunque / al suono dei tuoi passi». Come nelle celeberrime Forse un mattino andando e In limine di Eugenio Montale, anche per l’autore della raccolta la realtà è una misteriosa “finzione” da cui fuggire per mezzo di un varco, «una maglia rotta nella rete / che ci stringe» (In limine).

La ricerca, la domanda incessante («Il varco è qui? La casa dei doganieri») si declina nella cadenza dei versi, in attesa di un’illuminazione tanto folgorante quanto passeggera: alberi, case e colli proiettati come su uno schermo. Continua così per il poeta (e per il fotografo, e per chiunque “combatta” con una qualsiasi forma di espressione artistica) il lavoro per gettare «il ponte», come scrive Victor Hugo in una sua famosa poesia, a centinaia e migliaia di arcate tra la sponda umana e la stella lontana.

Osa perfino usare il termine “fatale”, l’autore del volume A sera prenderò per te una stella; una parola impegnativa, ma da intendere nel senso letterale di “che ha a che fare col fato”, con il destino, con lo svelamento del significato di tutto.

Il luogo comune del safe love così comune e dato per scontato nella nostra epoca, si svela per quello che è, una contraddizione in termini. L’amore autentico è “pericoloso” per definizione, perché ti porta dove non sai, ed è incompatibile con la nostra ossessione per il controllo. L’esperienza dell’amore rende vulnerabili, apre una ferita che non si rimargina, una domanda che neanche la presenza fisica della persona amata riesce a colmare: «Se per un attimo mi guardassi / non potrei soffrire la tua assenza» (Non ferirmi con la tua presenza). Ma quando tutto sembra avviarsi verso un cupio dissolvi senza redenzione, ecco affacciarsi la possibilità di una salvezza in precedenza solo intravista.

Una luce radiosa che conduce alla certezza di una rinascita e di un riscatto dalla sofferenza, forte di quella fiducia che sgorga dalle sorgenti stesse della vita.

I desideri ci portano dove non sappiamo, ma sono anche una segnaletica che indica la strada, che promette la gioia di un approdo. «Fino ad oggi nessuno ha visto gli uccelli migratori dirigersi verso sfere più calde che non esistono — scrive Karen Blixen in un bellissimo passaggio del suo Capricci del destino — o fiumi dirottare attraverso rocce e pianure per correre in un oceano che non può essere trovato. Perché Dio non crea un desiderio o una speranza senza aver pronta una realtà che la esaudisca. Il nostro desiderio è la nostra certezza, e beati siano i nostalgici perché torneranno a casa».

di Silvia Guidi