La testimonianza del vescovo di Beira in Mozambico

I virus della povertà e della guerra fanno più paura della pandemia

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22 luglio 2020

È l’impatto sociale ed economico della pandemia di covid-19 a fare più paura in Mozambico. Con 30 milioni di abitanti e una povertà generalizzata, i contagi ufficiali dall’inizio dell’emergenza sono stati 1.536, con 506 persone ricoverati e 11 morti. Cifre tutto sommato contenute, forse dovute anche al fatto che più della metà della popolazione ha meno di 20 anni e vive in zone rurali isolate. Le conseguenze saranno però molto pesanti. La chiusura delle scuole rischia di danneggiare i livelli di istruzione di una intera generazione. Decine di migliaia di migranti mozambicani che lavoravano nelle miniere del Sud Africa sono dovuti rientrare. Ora sono disoccupati e non potranno più assicurare il sostentamento delle rispettive famiglie. Al nord, nella provincia di Capo Delgado, gruppi armati che da anni destabilizzano con attacchi violenti, stanno approfittando della crisi per infierire sulla popolazione.

Questa è la situazione descritta da monsignor Claudio Dalla Zuanna, arcivescovo di Beira in Mozambico. Vicentino di origini ma nato in Argentina, fa parte della Congregazione dei sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù. Monsignor Dalla Zuanna conosce bene il paese africano: dopo un periodo come giovane missionario dal 1985 al 2003, vi ritorna come vescovo nel 2012. La sua ordinazione episcopale è singolare: nello stadio del basket del club ferroviario di Beira. Italo-argentino alla guida di una diocesi di 550.000 abitanti, tra i suoi preti figurano anche tre fidei donum vicentini. Lo scorso anno hanno dovuto affrontare l’emergenza provocata dal ciclone Idai, che ha causato 1.000 morti e decine di migliaia di sfollati.

E ora il covid-19. «L’impatto qui è stato molto diverso — racconta in video collegamento da Beira — la diffusione del virus è stata più lenta perché il 60 per cento della popolazione vive di agricoltura di sussistenza in zone molto isolate. Nelle città come Beira e Maputo gli effetti si sono sentiti di più». In Mozambico è stato impossibile applicare un lockdown rigido, come nel vicino Sud Africa. Nelle case-baracche non c’è acqua corrente, non ci sono servizi, le persone per sopravvivere devono dedicarsi al commercio informale e quindi devono per forza uscire. Anche se pochi hanno lo stipendio a fine mese tante piccole imprese hanno dovuto ridurre i lavoratori o chiudere. «Non avendo più il salario tanti non comprano più nel mercato informale — spiega il vescovo di Beira — quindi, a catena, c’è un impoverimento generale».

Nel sud del Mozambico l’impatto è stato più forte per la mancanza di rimesse di decine di migliaia di minatori. Sono stati costretti a rientrare dal vicino Sud Africa per la chiusura di tutte le attività economiche, una situazione che durerà a lungo perché ancora stanno fronteggiando una emergenza immane.

Un paese giovane con le scuole chiuse da tre mesi — l’anno scolastico era appena iniziato, a metà febbraio — subirà pesanti effetti sull’istruzione. A Beira, ad esempio, gli studenti già lo scorso anno avevano perso mesi preziosi di studio a causa del ciclone. Tante famiglie vivono ancora nelle tendopoli: «A distanza di un anno molti edifici pubblici non sono stati recuperati, si va a scuola a cielo aperto, con la pioggia o con il sole». «Il governo sta studiando misure per riaprire gli istituti scolastici — riferisce il vescovo — ma la disinfezione e il distanziamento sono inapplicabili in classi di 60/90 alunni. Su 600 scuole superiori 300 sono senza acqua corrente, le altre hanno servizi igienici precari. Non ci sono aule scolastiche né insegnanti a sufficienza. L’anno scolastico è oramai compromesso».

La situazione più preoccupante riguarda la zona di Capo Delgado, nel nord del Paese, fortemente (e forse volutamente) destabilizzata. È la provincia più povera, dove sono stati firmati contratti miliardari per l’estrazione di gas e materie prime. In questi ultimi mesi a Pemba, capoluogo della regione, ci sono oltre 200.000 sfollati, con enormi difficoltà per la sopravvivenza. Qui il dove il colera è endemico, ora è arrivato anche il coronavirus. «Da marzo le azioni militari sono aumentate — lancia l’allarme il vescovo — questi gruppi armati rivelano una capacità di organizzazione molto elevata. Hanno occupato intere cittadine e da aprile sono iniziate le prime rivendicazioni da parte dell’Is, che cerca di cavalcare il malessere della popolazione. Tanti giovani non vedono prospettive per il futuro e si lasciano facilmente coinvolgere».

Per tutti questi motivi, conclude monsignor Dalla Zuanna, i mozambicani riassumono il loro approccio alla pandemia con una battuta semplice ma efficace: «Il vecchio virus della povertà e della guerra ci preoccupa più del nuovo virus».

di Patrizia Caiffa