Eraldo Affinati e il «metodo-Penny Wirton» in un libro di Fabio Pierangeli

Gli infiniti (e imprevedibili) regali di un dono

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16 luglio 2020

«Il tema cardine della mia poetica è legato ai processi di emancipazione culturale dallo stato naturale alla pòlis. Prova a riflettere in questa direzione e troverai una chiave per leggere tutti i miei libri. Da un lato sono interessato allo “scatto predatorio”, dall’altro alla convenzione sociale e politica tesa a contenere la violenza umana. Se due uomini si incontrassero in una radura di bosco potrebbero uccidersi. I grandi stili dei codici giuridici sono commoventi perché cercano di dominare la nostra natura felina. Ogni volta che un professore spiega qualcosa ai suoi studenti, rinnova nel suo piccolo questo processo millenario». Parole di un dialogo che Fabio Pierangeli riporta nel suo Eraldo Affinati, La scuola del dono (Roma, Studium edizioni, 2019, pagine 212, euro 19), un libro insolito, una conversazione a tutto raggio con Affinati, tesa a ricostruirne un percorso umano e letterario, generoso e concretamente etico. Nella prima parte l’autore fa una presentazione puntuale della generazione di scrittori cui Affinati appartiene e scava nel sofferto passaggio «da un radicalismo etico, all’ordinarietà della condizione quotidiana», in quella perdita di spinta propulsiva che scolla dal reale. Una perdita che Affinati ha rielaborato nel concepire la sua poetica come potenziamento dell’esistenza, i suoi libri come sismografi di eventi, estremi; la guerra, la discriminazione, le rivolte contemporanee, l’immigrazione, vicende che lo spingono a chiedersi la ragione profonda di tanta inclinazione allo «scatto predatorio» e a cercarne la possibilità di una canalizzazione positiva. «L’energia di cui parli, oggi la ritrovo negli adolescenti immigrati. Da lì scatta l’emozione religiosa. Non una risposta risolutiva, piuttosto una febbre, un voler cercare la radice del nostro stare al mondo». Affinati racconta di averli sperimentati «la natura felina» e il fascino dello «scatto predatorio» nell’assenza di una vera relazione con i genitori, nel vuoto di un adulto guida. E di aver ricomposto una struttura di valori ideali di riferimento attraverso le letture dei grandi classici. «Stavo solo. Leggevo Dostoevskij e Tolstoj». Conrad, Hemingway, il colonnello Lawrence, Beppe Fenoglio, su tutti la stella tolstojana dal quale assorbe la prospettiva antropologico-religiosa, il desiderio di ricomposizione, di unità della persona. Un aspetto che nel tempo emerge con più forza, unito all’elemento pedagogico, all’insegnamento vissuto come riparo dalle «passioni deliranti» e sul quale si concentrano gli ultimi libri. L’uomo di Affinati è fatto per la relazione, per entrare in contatto, per insegnare imparando, accettando la propria e altrui “finitudine”, dove tradizione e progettualità sono esperienze inscindibili. «Da qui l’intuizione che la gratuità, senza alcun corrispettivo ideologico o militante debba essere il contenuto, l’humus, dell’azione di ogni singolo individuo». Ed è la scuola, a suo avviso, lo spazio privilegiato per migliorare «la qualità delle relazioni umane, piazza di scambi e stupori, (…) di certezze da distruggere, tesi da contestare (…) strumento decisivo di resistenza etica». Il libro di Pierangeli si completa con una ricca appendice dove sono elencati i libri di Affinati corredati da significative recensioni. Come quella di Orazio Buonanno per Via dalla pazza classe. Educare per vivere (Milano, Mondadori, 2019, pagine 245, euro 18) un libro che è rielaborazione narrativa di interventi, esperienze testimonianze sulle scuole Penny Wirton. «La verità — scrive Bonanno — è che senza questi ragazzi e queste ragazze non ci sarebbe l’Affinati scrittore di oggi, ci sarebbe Eraldo con tutta la sua umanità e fragilità. Così come non si può scindere l’Affinati scrittore dall’Affinati insegnante e maestro. Nella maggior parte dei casi queste due figure sono giustapposte, nel caso di Affinati si sovrappongono e diventano un’unica cosa».

di Nicla Bettazzi