Giovanni Giudici traduttore degli Esercizi

Francesco Hayez, «Ritratto di Antonio Rosmini» (1853-1856)
30 luglio 2020

In principio era Barthes. L’interesse del poeta Giovanni Giudici per la figura di sant’Ignazio di Loyola, e — in particolar modo — per i suoi Esercizi spirituali, nacque proprio grazie a un volume del noto studioso e scrittore francese, dal titolo Sade, Fourier, Loyola (1971). Il coup de foudre è da trovarsi fra le pagine di questo testo che per spregiudicatezza suscitò non poco scalpore nell’ambiente culturale dell’epoca: accomunare in un solo libro tre autori così differenti era — certamente — una grande prova di scrittore-saggista, per Barthes. Era un volo verso delle alture ignote.

Questo amore per Sade, Fourier, Loyola, è lo stesso Giudici a dichiararlo nella sua introduzione agli Esercizi: «Alla lettura di quello splendido saggio di Barthes io sono debitore del primo scatto di curiosità» verso gli Esercizi spirituali. L’intrigante volume di Roland Barthes fu per Giudici, dunque, la strada letteraria per arrivare alla traduzione degli Esercizi spirituali edito da Arnoldo Mondadori nel 1984.

Nel 1977, Giudici si fa inviare — come scrive egli stesso sempre nell’introduzione alla traduzione — da un suo amico di Barcellona una piccola «edición de bolsillo degli Exercicios spirituales secondo il cosiddetto autografo spagnolo (che di autografo, ossia di pugno dell stesso Ignacio, ha soltanto le correzioni e le annotazioni a margine)». E fu proprio questo libretto che “lo tenne compagnia” — così racconta il poeta nativo di Portovenere — per diverso tempo.

Ma cosa affascina Giudici di sant’Ignazio? Perché la traduzione dei suoi Esercizi? È il tema che lo colpisce? Il linguaggio? Le domande nascono così semplicemente come nascono i fiori. Allo stesso tempo, però, diceva il noto regista francese Louis Jouvet: «Non chiederti perché l’albero cresce. Cresce e basta». E, forse, dovremmo anche noi seguire questo consiglio. Ma, cercare di comprendere il perché il poeta Giudici si cimenti in quest’ardua impresa, è un tema troppo affascinante per non cercare di dare una risposta a simile quesito.

Seppur non del tutto estraneo alla produzione letteraria religiosa, difficilmente potremmo trovare nella spiritualità del poeta una “molla” così forte da spingerlo alla trattazione di un monumento spirituale e letterario come gli “Esercizi”. Fa sicuramente pensare un suo articolo — comparso sull’«Unità» il 27 agosto 1984 — per le Confessioni di Sant’Agostino nella traduzione di Carlo Carena (Einaudi, 1984), nel quale tiene a precisare il suo punto di vista di giovane amante della letteratura che — ad esempio — proprio con le Confessioni riscontrava qualche distanza: «Le Confessioni mi apparivano lunghissime, e forse un po’ noiose, al tempo delle letture giovanili».

In fondo, è Giudici stesso nella sua introduzione agli Esercizi a dichiarare apertamente la sua «scarsissima competenza nella scienza religiosa». E, allora, perché questa traduzione degli Esercizi? La spiegazione è, forse, da trovarsi nel suono, nella fonè della scrittura ignaziana: un suono che esprime bene un’idea, un concetto, un preciso messaggio che è indirizzato al lettore. Proprio così come avviene nella poesia. Il peso della parola in sant’Ignazio è lo stesso che un poeta dà alle parole scelte. Lo esprime bene padre Antonio Spadaro in un interessantissimo e prezioso scritto su «La Civiltà Cattolica» (Quaderno 3751, anno 2006) dal titolo Scrittura creativa ed Esercizi spirituali: «Il vocabolo che Ignazio usa per le sue parole è il participio «cavate». Esso sembra implicare un lavoro profondo di delucidazione e formulazione, che ricorda gli intensi versi di Giuseppe Ungaretti: Quando trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso (Commiato)».

Questa selezione, questo «cavare le parole» che il santo spagnolo attua non poteva che sedurre Giudici, poiché la stessa sua scrittura poetica era basata sull’intensità della concreta sostanza fisica della parola, determinandone così il ritmo e le associazioni fonetiche. Quello che Giudici presenta al lettore della sua traduzione è — non a caso — «un calco fonico-sintattico dell’originale». Paul Valery definiva la poesia una «prolungata esitazione tra suono e senso» e sia Ignazio che Giudici la pensano però diversamente. In entrambi il suono è netto, così come è ben preciso il senso della parola usata. Non c’è alcuna esitazione, men che mai — ovviamente — in Ignazio.

In sintesi, si sono incontrati due poeti, e da questo è nato il loro «dialogo amoroso», tanto per citare Roland Barthes. Giudici, forse, sarebbe contento.

di Antonio Tarallo